La sinistra e il campo largo
Basta parlare di Ulivo, serve un po’ di fantasia
Perdonate la parafrasi forte, ma quando sento pronunciare ancora la parola “Ulivo”, scusate crudeltà e franchezza, sogno di mettere mano a una motosega, forse anche a una ruspa. La questione è, sì, politica, ma ancora di più attiene alla semplice ordinaria fantasia, in questo nostro caso assente. Al centro e, sempre in questo caso, già che ci siamo, anche a sinistra, dove l’immaginazione, a dispetto di tutto, non è mai davvero andata al potere. All’inizio della storia, anni fa, gli inventori dell’accrocco elettorale riuniti in simposio fondativo ebbero un dubbio: Ulivo o Olivo? Vinse la prima opzione, ritenuta probabilmente poco assimilabile al simbolico gastronomico-culinario, tavola prosaicamente apparecchiata, tovaglia da ordinaria trattoria, bottiglia d’olio al centro, immagini da vecchio “Carosello”. Ulivo, dunque. Icona cristiana, graffita sui muri dai protomartiri, accostata a barca, àncora, botte, colomba, pesce e alla stessa croce, come si può ancora adesso notare nei frammenti incastonati nel porticato della chiesa di Santa Maria in Trastevere, sede della Comunità di Sant’Egidio.
Ulivo che rimanda perfino alle porte di Manzù dedicate a papa Giovanni nella basilica di San Pietro in tempi conciliari. In sostanza, non più falce martello o scudo crociato, semmai un semplice ramoscello. Semanticamente parlando un segno “mite”, benevolente, addirittura anodino, quasi a pronunciare, con intonazione da parroci, un incoraggiamento al voto perfino ai più timorati o riottosi: non abbiate paura, lasciate che il consenso venga a noi… Subito dietro l’ovale di Romano Prodi, dottor Balanzone della sinistra democristiana, forza tranquilla emiliana, bonarietà, almeno in apparenza. L’Ulivo ebbe la sua stagione di governo, sembrano però trascorse molte vite da allora. In un tempo successivo, con la nascita del Partito democratico, dopo un altrettanto breve dibattito costituente, pensando che fosse ingiusto buttare a mare con tutta l’acqua passata il contrassegno vincente della pregressa coalizione, qualcuno ritenne opportuno, omaggio al trascorso “trionfale” insediamento a Palazzo Chigi, di inserirlo nel nuovo simbolo: un Ulivo tuttavia minuscolo, “timido”, scaramantico, piccina memoria, giusto per. In tempi più recenti, altri, o forse sempre gli stessi, immaginando un improbabile accordo con gli stellati grillini, il mite Enrico Letta primo fra tutti, restando in ambito agricolo, agreste, bucolico, georgico, pascoliano, ritrovando magari l’eco della stessa pianticella di sfondo a perdita d’occhio, ha parlato di “campo largo”; gesuitico, salesiano, moroteo eufemismo per dire “… suvvia, cerchiamo di stare insieme”, però ognuno nel proprio ettaro, proviamoci almeno.
Un’immagine ulteriore che suggerisce improbabili vacanze con amici appena conosciuti, villeggiatura mossa dal dubbio che l’altro possa abusare del tuo accappatoio, dunque villini contigui, vicini ma non proprio prossimi, perché non si sa mai. “Campo largo” un lessico che tuttavia giunge dai giorni del Fronte popolare del 1936, formule escogitate dal Komintern, come ha fatto notare qualcuno più accorto. Prevedibilmente i fatti, ancor prima che il terreno fosse arato, hanno mostrato addirittura difficoltà di semina. Ancor prima di salire insieme sul trattore simbolico delle elezioni del 2023, sempre quel “campo”, sebbene largo o ampio, ha visto perplessi gli stessi soggetti destinati a occuparlo. Dunque, l’infaticabile Enrico Letta, fra tutte le possibili immagini cui ricorrere per indicare un riadattato casale politico comune ha fatto ritorno a un “nuovo Ulivo” (sic).
Possibile remake dei bei tempi, ammesso che davvero fossero tali, quando al Teatro Eliseo di Roma, Romano Prodi, accanto a lui Veltroni, spalla romana, intuirono d’essere a un passo da ciò che Nenni chiamava “la stanza dei bottoni Fiducia ancora una volta riposta in un nome in apparenza privo di pretese. Così perché l’Ulivo non morde, non sporca, non è certo la Casa delle Libertà di cui un comico disse che lì, tra le sue pareti, “… si può fare come cazzo ci pare”. Scommessa di coesistenza, subito messa in discussione dai distinguo dei vicini, ipotetici residenti dello stesso “campo”, Matteo Renzi e Carlo Calenda che, restando nel simbolico dei propri contrassegni elettorali , non hanno brillato a loro volta per fantasia, tra ali di gabbiano e una semplice “A” in corsivo maiuscolo che occhieggia al logo dell’Agenzia delle Entrate.
Nel frattempo, dinanzi al ritorno della parola ulivo crollavano i ghiacci della Marmolada e la terra dello Stivale si inaridiva insieme ai suoi fiumi un tempo magnificati dai sussidiari delle elementari, quando l’ulivo, o forse lì era l’olivo, figurava sulle monete da 2 lire. Melanconiche serre di un’appassita flora del simbolico politico, a nessuno venne in mente di immaginare altro, fosse anche un semplice nome, che so, restando nel perimetro cattolico, di chiamare il tutto “Carmelo” o magari “Carmela”, come già una struggente canzone della Spagna repubblicana in lotta contro la reazione fascista, “Ay, Carmela!”. In queste condizioni si potrà parlare ancora di fantasia, di un popolo di poeti, santi, ecc.?
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