Più che uno “scoiattolo” che mette in dispensa le ghiande-voti, Silvio Berlusconi sembra un ragno che tesse una tela fitta dove tutti sono fermi e prigionieri in attesa delle sue mosse. A Villa Grande le giornate sono scandite da riunioni con il responsabile Antonio Tajani e i capigruppo Barelli e Bernini. Il Cavaliere non molla e continua a fare di conto con l’ottimismo dei numeri più che quello della ragione. Gli alleati Salvini e Meloni mandano segnali di insofferenza e preoccupazione, chiedono Piani B perché temono che al “dunque”, cioè dalla quarta votazione in poi, la tela del ragno possa cedere all’improvviso e la coalizione che ha la golden share per decidere la casella del Colle resti con le armi spuntate. Ma fino a quel punto, parliamo del 27 gennaio, o anche il 28, tutto potrebbe restare clamorosamente fermo. Cioè impigliato nella tela del Cavaliere.

L’obiettivo, a oggi, è delineare almeno in prospettiva del 28 gennaio un Piano B che in questi quindici giorni non depotenzi la candidatura di Berlusconi ma sia al tempo stesso così smart da risultare all’improvviso vincente e risolutivo. Ecco che dalla tela del ragno potrebbe uscire la variante Giuliano Amato. Il giudice costituzionale, 84 anni, due volte premier nei passaggi stretti del 1992, ai tempi delle bombe di mafia, e del 2001 con l’ingresso nell’euro, è stato il candidato di Berlusconi e del Pd di Bersani nel 2015 prima che Matteo Renzi tirasse fuori dal cilindro il nome di Sergio Mattarella. Potrebbe essere lui, si ragiona nei vari capannelli dove si raccolgono le dinamiche di giornata del romanzo Quirinale, il Piano B su cui Berlusconi potrebbe decidere di dirottare il suo tesoretto di voti, tanti ma non sufficienti per arrivare a 505, dalla quarta o, ancora meglio, dalla quinta votazione (28 gennaio) o, meglio ancora dalla quinta prevista sabato 29 gennaio.

La scelta di Amato dalla quinta votazione metterebbe a posto vari tasselli della tela del Cav. Primo: il centrodestra dimostra di aver saputo gestire la golden share del Quirinale perché i voti li porterebbe in dote Berlusconi. Secondo: il 28 gennaio Amato viene eletto Presidente della Corte Costituzionale, la massima carica di garanzia dell’ordinamento della Repubblica rispetto alla quale anche Mario Draghi non potrebbe aver nulla da obiettare. «Sono solo due le personalità che Draghi potrebbe “sopportare” sopra di lui e al suo posto al Quirinale: Mattarella e Amato». Terzo tassello, la candidatura di Amato avrebbe un effetto collaterale assai utile nell’ottica del centrodestra: spaccare l’alleanza giallo-rossa e del centrosinistra visto il Movimento 5 Stelle ma anche parte del Pd e di Italia viva difficilmente potrebbero sopportare l’elezione di Amato. Ma intanto resta in piedi il Piano A, l’unico su cui Berlusconi sta lavorando. E che sta mettendo a dura prova i nervi di Salvini, soprattutto, e di Meloni.

I leader si sono sentiti e hanno deciso di vedersi venerdì per il vertice che dovrà prima di tutto annunciare se la candidatura di Berlusconi resta in campo oppure no. In alternativa, se resta in campo “almeno fino alla quarta votazione”. Opzioni che si portano dietro scenari completamente diversi. Una cosa è certa: solo il Cavaliere potrà decidere del suo destino e niente o nessuno sembra poter alla fine condizionare la sua scelta. Gli alleati sanno bene che qualunque torto o tradimento potrebbe costare caro alla coalizione. Berlusconi ha infatti tra le mani un’arma da fine del mondo: dare il via ad una legge elettorale di tipo proporzionale. Sarebbe la “fine” per le destre di Salvini e Meloni (anche se si sforzano di mostrarsi diversi, sempre destre sono) che sanno benissimo di non aver alcuna chance di vincere le elezioni e governare l’Italia senza lo scudo di una destra liberale ed europeista come Forza Italia. Anche la presenza di Draghi al Quirinale (il vero obiettivo di Giorgia Meloni) potrebbe non essere sufficiente a garantire affidabilità ad un governo delle destre senza Berlusconi.

L’arma della legge elettorale è più potente di quel che si possa immaginare. E tiene a bada i gruppi di centro che orbitano nel centrodestra. Coraggio Italia, cioè Toti e Brugnaro, ha deliberato ieri la sua posizione. «Mettiamo i nostri 32 voti su Berlusconi se ha i numeri altrimenti serve un nome a larga maggioranza». Osvaldo Napoli, tra i fondatori di Forza Italia poi migrato in Coraggio Italia per insofferenza rispetto al salvinismo, è ancora più chiaro: «Noi non siamo contro l’ipotesi Silvio Berlusconi, anzi, ma è chiaro che ci devono essere le condizioni politiche”. Una posizione attendista ma leale. E che ha una contropartita: una legge elettorale di tipo proporzionale di cui i centristi – non solo Toti ma anche Italia viva – avrebbero bisogno come il pane.

La verità è che la tela del ragno garantisce al momento spazi di manovra quasi inesistenti. Nel centrodestra. E anche nel centrosinistra. Al netto del fatto che fa comodo a molti dire “la prima mossa spetta a Berlusconi” visto che pochi hanno le idee chiare. E chi le ha, non ha però i numeri. Meloni chiede il Piano B per non restare con le mani vuote sul più bello. Salvini parla e lavora e incontra. Ieri mattina ha convocato una conferenza stampa per affrontare il problema energetico e del caro bollette. Accanto a sé, sorpresona, c’era Giancarlo Giorgetti, il ministro dello Sviluppo economico con cui i rapporti non sono idilliaci. La Lega vuole Draghi alla guida del governo per completare il lavoro iniziato e non destabilizzare l’ultimo anno di legislatura. Come se la salita di Berlusconi al Colle fosse priva di contraccolpi nella maggioranza. Per provare a parlare d’altro, Salvini propone da un paio di giorni un mega rimpasto del governo Draghi dove dovrebbero entrare «gli assi di briscola di tutti i partiti di maggioranza».

Il “governo dei leader”, un dream team di politici che darebbe forza al governo Draghi. E forse lo metterebbe sotto controllo per tornare a contare. E a mettere le mani sui miliardi del Pnrr. A questa proposta, il segretario dem sembrava aver aperto in un primo tempo. Ieri il dietrofront. Non tanto per il contenuto, quanto per la tempistica dell’idea di Salvini. «È un posizionamento tattico» si spiega dal Nazareno, «un modo per buttare la palla in tribuna in un momento in cui il dibattito nel centrodestra è bloccato dalla presenza in campo di Silvio Berlusconi». La Lega ha reagito male: «Il Pd si conferma il partito dei No. Ha detto No al tavolo dei leader, No a un impegno diretto dei segretari a sostegno del premier Draghi, No al tavolo per l’energia, No a una personalità di centrodestra per il Quirinale».

La verità è che tutti si stanno muovendo a vuoto. Nella tela del ragno, appunto. Venerdì il vertice di centrodestra dovrà almeno ufficializzare la candidatura di Berlusconi. Sabato toccherà al Pd. Che però al momento non ha proposte vere. Soprattutto non può decidere da solo. E anche i 5 Stelle non bastano. Si passa dal Mattarella bis a Draghi presidente con un governo politico. Una proposta in realtà c’è: contarsi nelle prime tre votazioni (quando servono 673 voti) cosa che più o meno faranno tutti e uscire alla quarta (505) per mettere nell’angolo eventuali franchi tiratori e doppiogiochisti complici del voto più segreto che c’è. «L’Aventino è un segnale di debolezza» diceva ieri Clemente Mastella, il sindaco di Benevento, centrista nel dna. Ma tra lui e il Pd i rapporti nell’ultimo periodo sono pessimi.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.