Un celebre esperto di carcere, Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica presso importanti tribunali e ora apprezzato notista di giudiziaria, ha scritto l’altro giorno su Huffington Post che «il 41 bis segna la fine di un’inaccettabile anomalia: criminali sanguinari che – fino al 1992 – se ne stavano in galera come in un grand hotel». Ora, possiamo anche accantonare il rilievo che il cosiddetto carcere duro rappresenta per noi – amici dei delinquenti che non siamo altro – una gratuita e inaccettabile forma di vendicativo sopruso: queste sono appunto argomentazioni sostanzialmente collusive, agitate da gente che fa il gioco di quei criminali e si disinteressa dei diritti delle vittime (è noto che le vittime hanno il diritto di veder torturati i detenuti).

E occupiamoci piuttosto dell’assunto secondo cui, prima del 41 bis, quelli, in carcere, si godevano il lusso di un grand hotel. Dove, di grazia? In quali dorate residenze carcerarie si consumava il sontuoso ménage dei mafiosi? E in che cosa consisteva, esattamente? Nelle sfrenatezze dell’ora d’aria? Nell’oltraggiosa frequenza dei colloqui? Nell’imperdonabile concessione di un libro da leggere? Perché le magnificenze garantite dal sistema carcerario italiano sono queste, e non risulta che gli esponenti della criminalità organizzata si siano fatti costruire una reggia per continuare lì dentro a coltivare il proprio sollazzo. Né si ha notizia che lo Stato abbia organizzato per i mafiosi sezioni speciali con donnine e aragoste.

Poi tu puoi anche reclamare che persista la pratica perlopiù illegale del carcere duro, e denunciare che richiederne la riforma significa darla vinta alla criminalità e spingere l’ordinamento verso la rinuncia a combatterla. Ma propugnare la lotta continua dello Stato su quella linea, lavorando sulla panza del Paese che si indigna davanti alla scena del mafioso nella camera di lusso, ecco, questo no: questo, per piacere, ci sia risparmiato.