La pandemia da Covid-19 ripropone in modo ineludibile le contraddizioni che da sempre si agitano nel difficile rapporto tra le condizioni reali di vita nelle carceri italiane e i principi fondamentali dell’ordinamento sui quali fonda il nostro Stato di diritto.

Penso ai seguenti principi: (i) “Ogni individuo ha diritto alla vita […] ed alla sicurezza della propria persona” [art. 3 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo]; (ii) “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti” [art. 4 stessa Carta]; (iii) “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione” [art. 7 stessa Carta]; (iv) “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge.” [art. 1 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali]; (v) “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali” [art. 3 Carta Costituzionale italiana]; (vi) “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” [art. 32 stessa Carta].

Sappiamo tutti che dinanzi al rischio di contagio da coronavirus il Governo ha dettato norme cogenti sull’intero territorio nazionale che impongono tassativo divieto di assembramento di persone in luoghi pubblici e ha imposto l’obbligo della distanza di sicurezza interpersonale. Questa normativa non trova paradossalmente applicazione nei luoghi chiusi a più alto rischio contagio, come sono le sovraffollate carceri italiane, e ciò genera un’oggettiva discriminazione contraria ai principi fondamentali sopra riportati, preludio di un potenziale torto di massa ai danni della moltitudine di detenuti, costretta a vivere in promiscuità eterodiretta, oltre che alla platea degli operatori penitenziari.

Nell’aprile 2020 l’avvocato Alessio Carlucci ed io, applicando il modulo già sperimentato di partecipazione attiva della “Class Action Procedimentale”, abbiamo chiesto al ministro della Giustizia di porre in essere tutte le misure idonee ad assicurare nella Casa Circondariale di Bari l’applicazione concreta delle prescrizioni governative in tema di distanziamento interpersonale e di divieto di assembramento. È trascorso ormai un anno dalla nostra richiesta, ma il ministro non ha mai risposto! In ragione di tanto, e forti della funzione sociale riconosciuta all’avvocatura, abbiamo dato seguito alla nostra azione di cittadinanza attiva citando in giudizio il Ministero della Giustizia dinanzi al Tar Puglia perché sia dichiarata l’illegittimità del “silenzio significativo” che vulnera un preciso obbligo di legge e che minaccia l’effettività del diritto alla salute sia nel carcere di Bari che nel territorio metropolitano circostante. Abbiamo altresì segnalato al governo, sempre con l’azione giudiziaria, l’urgente necessità che la popolazione carceraria rientri tra le categorie prioritarie del piano vaccinale nazionale.

Questa “Class Action Procedimentale” è una forma originale di democrazia diretta, uno strumento giuridico di contrasto ai “torti di massa” cui noi abbiamo dato vita nel 2009 con l’azione popolare volta alla declaratoria della proprietà pubblica del Teatro Petruzzelli ricostruito esclusivamente con fondi pubblici a seguito di un criminale incendio doloso. In anni più recenti abbiamo promosso distinta “Class Action Procedimentale” sfociata nell’azione giudiziaria popolare contro il Ministero dell’Interno per la tutela del diritto all’immagine pubblica della città di Bari in seguito alle violazioni dei diritti umani consumate nel locale Centro di Identificazione ed Espulsione.

L’ultima iniziativa a tutela del diritto alla salute dei detenuti e degli operatori penitenziari nel carcere di Bari in tempo di pandemia, come la precedente sul CIE, muove dal convincimento che l’applicazione concreta degli inviolabili diritti umani definiti dalle carte internazionali e dalla Costituzione repubblicana vada costantemente difesa contro ogni tentativo di farne arretrare i confini espellendo i più deboli e i reietti. La questione che poniamo è centrale perché involge il cuore del principio di legalità. La capacità dello Stato italiano di osservare le proprie leggi e di garantire a ogni essere umano, anche al più debole detenuto nelle carceri, la fruizione dei diritti inalienabili è un termometro della salute della nostra democrazia costituzionale.