E alla fine il cerino è rimasto in mano alle regioni. E ai cittadini: da ora in poi saranno i primi responsabili del proprio destino rispetto alla pandemia e ai modi per uscirne. Conte e il governo si tengono il ruolo di registi dell’emergenza, quelli che fissano le regole, che non è il più scomodo e neppure il più semplice. La faccia sull’emergenza però d’ora in poi la metteranno sindaci e governatori. Il testo del Dpcm, dopo varie limature, è stato presentato ai governatori ieri pomeriggio alle 17. Venticinque pagine, 12 articoli, divide l’Italia in tre aree con diversi indici di rischio (valutati in base a 21 parametri), affida al ministro della Salute e ai presidenti della Regioni la classificazione di una regione nella fascia a basso, medio o alto rischio. Per quello che riguarda le linee generali, il premier Conte ha avuto la meglio sul Pd che voleva il coprifuoco a partire dalle 21: la serrata scatterà alle 22 per dare modo ai ristoranti che fanno servizio da asporto di poter lavorare.

Chiudono musei e centri commerciali ma non i negozi al dettaglio che potranno continuare a lavorare fino all’orario previsto. Salva la scuola in presenza fino alla terza media. A distanza al cento per cento nelle scuole superiori. Il trasporto pubblico, il cui uso viene il più possibile sconsigliato, sarà limitato al 50% della capienza. Poi le regole cambiano, e si fanno sempre più stringenti, via via che le singole regioni passano dalla zona a rischio basso (al momento dovrebbero essere 15 tra cui Toscana, Lazio, Veneto ed Emilia Romagna), al medio (Puglia, Campania e Liguria) fino al massimo rischio, le cosiddette zone rosse che, sempre a ieri sera, contano Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino e Calabria. Tornano le autocertificazioni per entrare o uscire nelle regioni della zona rossa: lo si potrà fare solo per “comprovati motivi di salute, lavoro e necessità”. Nella zona rossa sarà lockdown come a marzo. Per le altre due zone si può parlare di light lockdown. Come in Germania. Le nuove misure saranno in vigore dal 5 novembre al 4 dicembre.

Questa, a grandi linee, la bozza del Dpcm uscita da palazzo Chigi poco prima delle 17 dopo cinque ore di confronto serrato con i capidelegazione dove l’anima rigorista del governo (Leu e una parte del Pd) si è scontrata ancora una volta con quella aperturista (l’altra parte del Pd, Italia viva e i 5 Stelle). Tensioni sulla scuola (Iv e ministra Azzolina l’hanno voluta tenere aperta il più possibile), sui centri commerciali (ha vinto il rigore) e sull’orario di apertura delle città. Il Pd voleva le 21. E così infatti era indicato in una bozza. Conte ha imposto le 22, “è una questione di logica, se lasciamo aperto l’asporto dobbiamo farli lavorare”. Sembra soddisfatta Italia viva. Teresa Bellanova, capodelegazione, ha puntato il dito sul trasporto pubblico, “affrontiamo i problemi lì dove nascono”. La riduzione al 50% è una scelta che doveva essere fatta a settembre. La ministra De Micheli, titolare delle Infrastrutture, l’ha detto chiaro: «Sappiate che in nessun modo possiamo raddoppiare la portata del nostro Tpl, lo dico per l’oggi e per il domani, quando dovremo attraversare la fase della convivenza col virus». Doveva essere già adesso quella fase. È stato perso lo slot.

Trovata in qualche modo la quadra nella maggioranza, è iniziato il gran ballo con le regioni. Che ha avuto il primo stop alle 18 e 30, appena un’ora dopo l’inizio del confronto. “Serve una pausa per leggere bene il testo” hanno spiegato. Rinviando alla notte o addirittura alla mattina l’approvazione o meno del Dpcm. Il cerino, infatti, resta in mano ai governatori. Saranno loro a dover gestire le chiusure stabilite con ordinanza dal ministro Speranza se le curve del contagio e del sistema sanitario, non solo per il Covid, dovessero andare in tilt tanto da far scattare la zona rossa. I governatori hanno sempre chiesto “norme nazionali” in ossequio all’adagio “mal comune e mezzo gaudio”. Salvo poi, però, nel primo lockdown, rivendicare più volte l’autonomia e il diritto di aprire in relazione all’esigenza del territorio.

Tardivo, forse, il nuovo Dpcm ha il merito di individuare criteri flessibili ma certi e duraturi nel tempo rispetto ai quali ciascuno può provare a organizzare la propria vita. La ministra Teresa Bellanova lo definisce “un nuovo patto sociale”, un “meccanismo corretto, virtuoso e responsabilizzante dove non solo chi governa ma anche i cittadini si devono sentire responsabili dell’andamento del contagio”. Giuseppe Conte punta ormai tutto, anche la sua sopravvivenza politica, su questo Dpcm. Ecco perché è sembrato di gomma in questo lungo weekend di voci, indiscrezioni, caos e rivolte di piazza. «Vuole dare tempo a tutti di ritrovarsi in questo provvedimento per togliere ogni alibi alle polemiche. Specie quelle del giorno dopo».

C’è la mano di Mattarella in questo tentativo di nuova fase di “unità e condivisione” tra le forze politiche. Un cambio di passo necessario e non più rinviabile. Il Capo dello Stato ha usato la sua moral suasion con tutti dopo tre settimane di caos totale. Aggravato dalle proteste in piazza. Prima Conte, poi i presidenti delle regioni. Ieri pomeriggio i presidenti di Camera e Senato a cui ha ribadito che “il Parlamento è centrale nella lotta al Covid” e che “sta soprattutto a loro il compito di agevolare in tutti i modi il dialogo in Parlamento”. Per ora Salvini e Meloni sembra prendano a schiaffi ogni proposta del premier. Una mano tesa bollata come “tardiva e strumentale”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.