Anche il Quirinale irrompe, fornendo un assist provvidenziale sul tormentone dell’anno: il pensionamento di Piercamillo Davigo. Il prossimo 20 ottobre la toga preferita da Marco Travaglio compirà settant’anni e, come tutti i magistrati, dovrebbe andare in pensione. Il condizionale è d’obbligo. Davigo, infatti, non è un magistrato come gli altri ma è un consigliere del Csm. L’elezione a piazza Indipendenza avvenuta nel 2018 con oltre 2500 voti supererebbe, secondo l’ex pm di Mani pulite, l’handicap anagrafico in quanto il mandato nell’Organo di autogoverno delle toghe ha durata quadriennale. Quindi fino al 2022 nessun problema.

A supportare la tesi davighiana ci sarebbe adesso Stefano Erbani, storico esponente di Magistratura democratica, e ora potente consigliere giuridico di Sergio Mattarella che del Csm è il capo. Erbani nel 2011 era all’ufficio studi del Csm e avrebbe scritto un parere, rispolverato per l’occasione, su una vicenda abbastanza simile a questa. La notizia è stata riportata ieri dalla Stampa, secondo cui anche Davigo, a sua volta, avrebbe scritto una memoria di suo pugno pro permanenza al Csm. L’assist di Erbani si scontra però con un altro “parere” scritto da un’altra storica toga di Magistratura democratica, Nello Rossi. Rossi, già avvocato generale dello Stato e ora nel direttivo della Scuola superiore della magistratura, è il direttore di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica.

In un suo articolo a proposito dell’ulteriore permanenza di Davigo a piazza Indipendenza, Rossi aveva evidenziato come ciò fosse «in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore», rappresentando una decisione “sbagliata ed incomprensibile”. «Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?», si interrogava Rossi. Il ragionamento di Rossi a detta di molti è ineccepibile: «Chi è eletto al Csm da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio».

«Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali», ricordava Rossi, evidenziando che «la cessazione dello status di magistrato determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore».
Rossi aveva anche smentito la vulgata ricorrente secondo cui sarebbe esistito il “precedente” di un magistrato pensionato al Csm: quello di Davigo sarebbe il primo caso da quando esiste l’Organo di autogoverno delle toghe.

«Il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio sia rispetto alla generalità dei magistrati», puntualizzava Rossi. E quindi: «A differenza degli uni e degli altri non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare». Il “già pensionato ma ancora consigliere superiore” sarebbe libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione. Il “salvacondotto” avrebbe comunque un paradosso in quanto «nella veste di giudice disciplinare (Davigo) sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare».

«La figura che emerge è quella di un “extraneus” alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento ma i cui comportamenti nella vita dell’istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se restano al di sotto della soglia della rilevanza penale», chiariva Rossi. E il plebiscito elettorale? Non conta. «Se a sostegno della perdurante presenza di Davigo in Consiglio si dovesse invocare “esclusivamente” il successo elettorale legittimamente conseguito nelle ultime elezioni, ritenendo che esso risolva in tronco ogni altra questione di diritto e di opportunità, allora dovremmo trarne una inquietante conclusione: che sono penetrati in magistratura la mentalità e lo stile di non pochi uomini politici del nostro Paese per i quali ogni principio e ogni regola di funzionamento delle istituzioni – e financo ogni discussione – possono essere spazzati via dal risultato elettorale».

In conclusione, se Davigo proseguisse la permanenza al Csm rischierebbe “di sottoporre a nuove tensioni e contraddizioni un organo già scosso dai fatti dell’ultimo anno e che deve essere risolta correttamente per consentire al Consiglio di continuare a svolgere positivamente i suoi fondamentali compiti». In attesa che i colleghi decidano se ascoltare Erbani o Rossi, l’ultima parola spetta al Plenum, oggi pomeriggio Davigo sarà siederà nel collegio disciplinare che dovrà giudicare Luca Palamara e gli ex consiglieri del Csm che parteciparono al dopo cena di maggio 2019 con Cosimo Ferri e Luca Lotti.