Liberista? No, keynesiano pragmatico
“Draghi non è un banchiere della Goldman Sachs, ma un servitore dello Stato”, intervista a Giampaolo Galli
«Alcuni lo dipingono come un banchiere di Goldman Sachs. Ma Mario Draghi è un grande servitore dello stato». A dirlo è Giampaolo Galli, oggi all’Osservatorio Conti Pubblici dell’Università Cattolica. Che rimarca: «Il ruolo che Draghi ha svolto prima alla Banca d’Italia e poi alla Banca centrale europea è un mestiere da servitore dello stato».
Galli è un economista che ha attraversato alcuni decenni della storia italiana: da quando era funzionario a Bankitalia fino all’impegno in Confindustria per finire con l’attività politica. Nel corso di questi anni le occasioni di collaborazione con Mario Draghi sono state parecchie. A partire dal primo incontro a Boston, Massachussetts, ai tempi dell’Università. I due si conoscono infatti al Massachusetts Institute of Technology (Mit) nei primi anni Settanta.
La vostra conoscenza risale ai tempi del Mit.
In realtà ci siamo incrociati per un breve periodo. Ero appena arrivato e lui faceva l’ultimo anno.
Che tipo era?
Per essere uno che aveva appena finito i corsi di dottorato, aveva un’ autorevolezza sorprendente. Questo mi colpì. Un piccolo ricordo: eravamo a casa di amici negli Usa e lui aveva un aereo per Roma. Partì all’ultimo minuto. Sembrava che avesse calcolato i tempi perfettamente. Era del tutto tranquillo. Draghi arrivava spesso all’ultimo minuto, ma è sempre stato tranquillo. Non fa una piega e ha sempre la cravatta a posto.
Le vostre strade si incrociano di nuovo all’Università di Bologna.
Sì, ad un seminario alla fine degli anni ’70. Draghi era già professore di economia e presentava un suo lavoro. Quando cominciò a parlare l’aula si riempì e scese il silenzio. La sua autorevolezza era palpabile. Arrivò anche Beniamino Andreatta per ascoltarlo.
Nel 1980 lei diventa funzionario della Banca d’Italia. A quel tempo, Draghi era un consulente esterno dell’istituto.
La cosa singolare è che negli anni ’70 si era affermato l’orientamento di non incaricare più consulenti esterni. Draghi fu un’eccezione. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, si convinse che era la persona giusta per l’istituto.
Avete lavorato su dossier comuni in quel periodo?
Io lavoravo al modello econometrico. Nel corso di un incontro con i vertici della Banca in cui presentavamo i risultati del nostro lavoro, l’approccio di Draghi mi conquistò. Era intelligente e cauto. Esordì così: «Di queste cose so poco; provo a dire cosa mi viene in mente». Era molto rispettoso dei presenti. I consulenti a volte possono generare conflitti con la struttura. Ma si capì che lui era lì per valorizzare le persone che lavoravano per l’istituto.
Tra il 1984 e il 1990 Draghi riveste poi il ruolo di direttore esecutivo della Banca Mondiale. L’anno successivo, il ministro del Tesoro Guido Carli lo assume come direttore generale al ministero, raccogliendo il suggerimento Carlo Azeglio Ciampi, che governava ancora la Banca d’Italia. Le vostre strade si incrociano di nuovo.
Nel ’92 ero capo della direzione internazionale del servizio studi di Banca d’Italia e in questa veste partecipavo al comitato monetario europeo che aveva il compito di promuovere il coordinamento delle politiche degli Stati membri delle Comunità europee in materia monetaria. Il Trattato di Maastricht era stato firmato da poco ed era il momento di massima gloria dell’Unione europea.
Ma poi arrivano i tempi bui…
Sì, nel settembre ‘92 si svolge il referendum francese su Maastricht con buone possibilità di non approvare il Trattato e con il rischio di far saltare l’unione monetaria. Una situazione di estrema debolezza della lira: su richiesta della Germania, si concordò una svalutazione della moneta nazionale del 7%. Ma fu insufficiente. E la furia dei mercati si scatenò sulla lira e anche sulla sterlina.
E dunque?
Fummo convocati a Bruxelles verso la mezzanotte per decidere cosa fare. Draghi rappresentava il Tesoro. Per la Banca d’Italia c’eravamo Lamberto Dini ed io, che ero il suo sostituto. Trichet era chairman del comitato monetario ed era stato oggetto di violenti attacchi da parte della stampa inglese, che riteneva che la svalutazione della lira fosse stato un atto bilaterale tra Italia e Germania.
Che succede a Bruxelles?
La situazione era tesissima, ma Draghi era tranquillissimo. Aveva chiare le cose da dire. Riuscì a tenere inchiodato tutto il Comitato Monetario per diverse ore, cercando di trovare una soluzione che non fosse troppo negativa per l’Italia. Alla fine riuscì a far passare la linea Ciampi: la lira usciva momentaneamente dai meccanismi di cambio per rientrare a breve. In realtà l’Italia rientrerà solo nel 1996, ma lui fu capace di fare accettare questa soluzione che ci aiutò a moderare l’attacco alla lira. E, come al solito, lo fece senza manifestare alcuna ansia: fu impeccabile.
Ecco perché lo definiscono “atermico”…
A Francoforte lo chiamano così perché anche a gennaio, in Germania, non porta il cappotto. Ma la definizione è valida anche per evidenziare questa sua capacità di autocontrollo. Magari decide all’ultimo minuto, ma casca sempre in piedi.
Poi lei va a lavorare in Confindustria come capo economista e poi come direttore generale. Mentre Draghi viene riconfermato al ministero del Tesoro fino al 2001.
Draghi ha gestito diversi dossier importanti: l’ingresso nel meccanismo europeo di cambio nel 1996 e l’ingresso nell’Euro nel 1998. È stato accusato, in particolare dai no euro, di aver negoziato un tasso di cambio favorevole per la Germania con la lira sopravvalutata, il che avrebbe compromesso la competitività del made in Italy. Non era vero: nemmeno gli industriali chiedevano un tasso di cambio più svalutato; quello che fu concordato andava sostanzialmente bene.
Qual è il pensiero economico di Draghi? Che cosa potremmo dire della sua formazione?
Lui ha fatto la tesi laurea con Federico Caffè che è certamente un economista di sinistra. Poi ha fatto la tesi di dottorato col premio Nobel Franco Modigliani, un uomo che era molto sensibile ai temi della piena occupazione. Il Mit inoltre aveva una chiara impronta: oltre a Modigliani, anche Paul Samuelson e Robert Solow, tutti premi Nobel, sono considerati dei keynesiani pragmatici che ritengono giusto fare politiche della domanda in alcuni casi e contare sull’offerta in altri casi.
Ma in questi giorni circola di nuovo il video in cui Francesco Cossiga accusa Draghi di aver svenduto l’industria italiana negli anni ’90.
Quell’accusa è ingiusta. Lui fu il protagonista delle privatizzazioni perché questo era il mandato politico che aveva ricevuto, in particolare dai governi di centrosinistra. L’obiettivo principale era quello di ridurre il debito pubblico. In quegli anni tutti i paesi europei facevano le privatizzazioni per ridurre il debito pubblico accumulato negli anni ’80 (anche se nessuno aveva le dimensioni del nostro) e perché l’industria di stato non aveva dato buona prova, accumulando perdite e trasformandosi in centro di potere clientelare.
Quindi non lo fece per adesione a una visione liberista.
Esatto. Aggiungo che privatizzare è un’operazione di enorme complessità. Devi vendere aziende complesse e trovare qualcuno che le gestisca. Che io sappia nessuno lo ha mai potuto accusare di conflitti di interesse né mi risulta che abbia avuto richiami da parte della Corte dei Conti. In un paese come il nostro è un fatto notevole.
E in Europa?
Anche in Europa il pragmatismo di Mario Draghi è emerso in tutta evidenza. Draghi è senz’altro un europeista convinto ma pragmatico.
Qualcuno però lo associa all’austerità, per via della lettera che la Bce mandò a Berlusconi nell’agosto del 2011.
Anche questo mi sembra un po’ uno stereotipo. Da presidente della Bce ha difeso l’Europa con politiche che sono agli antipodi dell’austerità: il Whatever it takes e il Quantitative easing.
Pragmatico anche nel distinguere oggi tra debito buono e debito cattivo.
All’inizio della pandemia scrisse sul Financial Times che gli stati dovevano spendere molto, facendo debito, per aiutare le persone e le imprese. Ha esercitato così una grande influenza su tutti i paesi del mondo. Che hanno aumentato il debito pubblico a livelli paragonabili a quelli dei periodi bellici. Basti guardare gli Usa, il Regno Unito, la Francia e la stessa Germania.
Sarà questa la sfida di Draghi al governo?
Certamente sì. Come ha detto presentando il rapporto del G30 a fine 2020, d’ora in avanti sarà necessario salvare non tutte ma soltanto quelle imprese che danno garanzia di redditività. Bisogna capire come si può fare questa cosa attraverso i meccanismi di mercato. Non so che cosa pensa di fare Draghi, ma immagino che l’unico modo sia quello di affidare il compito alle banche. È questo il loro mestiere.
Come si fa il debito buono?
Con investimenti capaci di generare maggiore reddito e Pil. Capaci cioè di lasciare qualcosa alle giovani generazioni.
Quali sono le altre qualità di Draghi?
Sicuramente una grande capacità di tessere relazioni. Nel 2011 Trichet tentò un’operazione simile al Whatever it takes per temperare gli spread dei paesi europei periferici. Anche con l’acquisto dei titoli pubblici italiani. Ma i mercati capirono che non aveva il sostegno di Merkel e Sarkozy. Trichet spese molti soldi, ma non ottenne nulla. Draghi, viceversa, non spese un euro ma convinse i mercati e ottenne il risultato che aveva in mente. Grazie pure al fatto che i mercati percepirono che aveva il sostegno di Merkel e Sarkozy.
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