Secondo l’Istat solo il 10% delle donne che subiscono violenza o atti di persecuzione denunciano i propri aguzzini. Secondo l’associazione D.i. Re – Donne in rete contro la violenza – questa percentuale può essere innalzata sino al 27%. Sempre poche. Sempre in troppe soccombono e in tante muoiono in spirali ininterrotte di sopraffazione. Non si riesce a venirne a capo. Il ministro Cartabia ha annunciato un nuovo round legislativo. Una nuova stretta probabilmente. E se il problema fosse proprio il Codice rosso? E se alla base di questa indifesa omertà vi fosse proprio la terribile gravità delle sanzioni che l’ordinamento prevede a carico di stalker, violenti, abusatori?

Non è un terreno, questo, in cui si possono tollerare provocazioni o polemiche strumentali, tuttavia bisogna pur tentare di comprendere perché – a dispetto di un profluvio di pene, di misure di prevenzione, di diffide, di manette e quant’altro dispensato in questi anni a piene mani dalla politica, sino alla legge 69 del 2019 (il Codice rosso appunto) – la situazione non migliori. Anzi, presenti evidenti segnali di peggioramento. Una spiegazione, forse, si può cercare proprio nell’estrema gravità delle conseguenze che una denuncia può comportare per il nemico che si annida, tante volte, tra le mura domestiche. La crisi delle relazioni affettive, la fine delle vite in comune, i figli, le nuove esistenze, gli allontanamenti, le fughe coinvolgono persone che si sono amate, si sono scelte, hanno attraversato insieme deserti e si sono dissetate in oasi sempre più rade e asciutte.

Non è facile denunciare. Non è facile entrare in un posto di polizia o in una procura e mettere a nudo la propria sofferenza e, in parte, anche i propri fallimenti. L’esperienza insegna che tante volte si ha pudore a dire di aver sbagliato uomo, di aver mal giudicato un compagno, di essersi messo accanto un violento. A questa ritrosia si aggiunge la difficoltà – tutta femminile, tutta umana, tutta misericordiosa – di sopportare l’idea delle manette, del processo, del carcere per chi si è amato, e talvolta tanto. Ecco la scure punitiva che tanto esalta i seguaci della forca giudiziaria si erge essa stessa a freno. Tanto più la reazione dello Stato è dura e inflessibile, di altrettanto cresce il timore di “rovinare” per sempre chi pur si è amato e con cui una parte della vita è pur trascorsa insieme. Molte volte gli uomini neri sono persone fragili, sconnesse, se non malate, le donne lo sanno. Paranoici o mitomani come i tanti che si incontrano tutti i giorni e dappertutto; quelli che imprecano agli alimenti, all’allontanamento da casa, a una vita immiserita da una nuova povertà, alle ex mogli e alle ex compagne che tentano di ricostruirsi un’esistenza.

Lo sanno tutti dove covano l’odio e il risentimento, spesso passano per le aule di giustizia chiamate a dirimere conflitti e contrasti. Altre volte fuori in esistenze più precarie. Ma un dubbio si staglia inquietante: se lo Stato appresta patiboli punitivi non sembra ragionevole mettere in piedi un sistema che alle donne, alle vittime assegni inevitabilmente il ruolo del boia. È la trappola che il legislatore, suggestionato o anche solo emozionato da tanto orrore, ha un po’ alla volta approntato per le donne. Le ha spinte innanzi a un’alternativa cinica e feroce: mettere le manette ai polsi di chi si è amato con il cuore gonfio di tristezza e sofferenza oppure tacere e, troppe volte, morire. Mitigare, graduare, proporzionare, curare, allentare, aiutare. Declinare l’umanità in norme possibili, non mettere le vittime con le spalle al muro e chieder loro di premere il grilletto.