Sarò controcorrente, ma nella vicenda Philip Morris-Casaleggio-M5S non mi pare che il problema siano le lobbies. Il problema è la forma partito, anzi la forma movimento. Andiamo per gradi.

In tutte le democrazie del mondo le lobbies esistono e fanno il loro mestiere. Rappresentano interessi. Alcuni di questi interessi possiamo considerarli meno nobili, su altri converremo più facilmente sul fatto che siano nobili. Ci sono lobbies di interessi economici, di interessi sociali, lobbies umanitarie, lobbies religiose. È un fatto che le democrazie contemporanee più avanzate, complesse e certo anche problematiche hanno riconosciuto.  Di fronte ai fatti il problema non è negarli. È semmai gestirli. La società pullula di interessi settoriali, parziali. Si chiama società complessa. Il problema è il loro rapporto con la democrazia. E ci sono valanghe di volumi scientifici, migliaia di legislazioni diverse su come quel rapporto possa o debba essere regolato. Del resto anche i partiti politici, alle loro origini erano guardati con sospetto, combattuti come frazionistici, settoriali, classisti. Di fronte alla società omogenea dell’epoca liberale era inaccettabile che una parte si facesse partito e non pretendesse di rappresentare i presunti interessi obiettivi della società.

Il problema non sono le lobby. Il problema sono i loro interlocutori. Le istituzioni e i soggetti che vi operano. Smettiamola con questo provincialismo ipocrita e perbenista. E occupiamoci dei soggetti e delle istituzioni. Quelle italiane sono tra le più permeabili al mondo ai condizionamenti dei gruppi organizzati. Processi decisionali opachi, barocchi, imperscrutabili. Poteri di veto che si annidano ovunque e che costringono allo scambio, al negoziato continuo. Siamo una vetocrazia. E dietro ogni minaccia di veto c’è un tavolo per trattare.
Di fronte alla “lobby del tabacco” come a qualsiasi altra lobby un’istituzione che si rispetti non si mette a fare la selezione moralistica o elettoralistica. Ma analizza i fatti, accerta la fondatezza o l’infondatezza tecnico-scientifica delle affermazioni e prepara gli elementi per la decisione.

Decisione nella quale invece le lobby non devono entrarci affatto. La decisione è l’atto politico in cui il singolo interesse settoriale viene soppesato con gli altri interessi contrapposti. L’interesse pubblico non è la pietra filosofale che giace da qualche parte e che bisogna scoprire in un’epifania della verità. L’interesse pubblico è il frutto della selezione dei tanti interessi. Ed è la politica, anzi la maggioranza politica del momento che decide cosa sia l’interesse pubblico in quel momento. Si chiama democrazia e in democrazia non c’è Babbo Natale, c’è la responsabilità politica per le scelte che si fanno. Il problema non sono le lobby. Il problema sono i processi di decisione. E sono anche i soggetti politici che vi partecipano. E qui c’è la vera novità di questa vicenda. Il cortocircuito che ci dice molto su questo fenomeno che si vanta di essere movimento e non essere partito. La definizione è errata. E la vicenda dei Casaleggio lo dimostra. I 5 stelle sono un partito che ha esternalizzato le funzioni del partito.

Organizzazione, finanziamento, rapporti con la società civile… e con le lobbies. Questo obiettivo è stato realizzato (come dimostra l’accurato volume di Nicola Biondo e Marco Canestrari, Il sistema Casaleggio, Ponte alle Grazie, 2019) attraverso la costituzione dell’associazione Rousseau il cui presidente (senza limiti di mandato) è Davide Casaleggio, il quale, come alcuni stati monarchici del passato, realizza un’unione reale con la Casaleggio associati, guidata dal medesimo. L’associazione Rousseau è l’infrastruttura operazionale del movimento, la foglia di fico che gli consente di chiamarsi tale (e non partito), frodando la lingua e la Costituzione, semplicemente perché Rousseau ha assunto i compiti che tradizionalmente i partiti svolgono al proprio interno. Organizza la selezione dei candidati, gestisce i dati degli aderenti, applica sanzioni disciplinari ai rappresentanti nelle istituzioni, riceve parte dei contributi pubblici versati dai parlamentari, interviene nella determinazione della piattaforma politica. E fin qui niente di male, a parte la frode alla lingua italiana e alla Costituzione. Ognuno si organizza come vuole. E può farsi chiamare anche “Pippo”, ma sempre partito rimane, che gli piaccia o no. Anche se esternalizza parte delle funzioni e dell’organizzazione.

Il problema è che l’associazione Rousseau, di fatto, è parte del partito che si fa chiamare movimento. In tutto ciò Davide Casaleggio è uno e trino. Fondatore con Di Maio del movimento (si veda lo statuto del 2017), presidente di Rousseau, Amministratore della Casaleggio associati.  In questo quadro la società che riceve finanziamenti da chicchessia, e soprattutto da una lobby, nella sostanza non è, come vorrebbe far credere, una normale società di servizi o di comunicazione che offre prestazioni per un gruppo di interessi dietro compenso (di queste ce ne sono tante e svolgono una funzione perfettamente legittima). No, in questo caso, grazie all’unione reale di cui parlavo, è un segmento di un sistema che, in ultima istanza, è intrecciato con il movimento-partito. Una propaggine esterna che riceve finanziamenti per determinare, mediante gli incastri dell’associazione schermo, una politica pubblica.

Sul piano delle dinamiche decisionali ci troviamo di fronte a un partito che, esternalizzando la propria organizzazione, costruisce il proprio programma in forza di finanziamenti elargiti a una propria propaggine reale. Condizionando l’indirizzo politico, aggirando la regola del libero mandato (a proposito non erano proprio loro a volerlo eliminare?), vendendo i propri programmi al miglior offerente. Non ha importanza se tutto ciò sia penalmente o civilmente rilevante. E a me non interessa. Non faccio né il pm, né il moralista di professione.

Ma è rilevante dal punto di vista costituzionale. Segna un salto di qualità nell’organizzazione della democrazia. E comunica il messaggio che i partiti sono in vendita. E non perché sia immorale avere finanziamenti privati, ma perché il modo in cui questi finanziamenti arrivano impedisce agli elettori, soprattutto agli elettori del Movimento-partito di conoscere e quindi decidere se sostenere o meno (in piena libertà) un partito che ha quei finanziatori e adotta quelle politiche. Il sistema elaborato dietro l’accattivante specchietto rappresentato dalla parola movimento, in realtà realizza l’opacità totale, sia quanto ai finanziatori, sia quanto alle scelte politiche.

Ecco, perché sia chiaro, la democrazia è l’esatto contrario. È l’assunzione trasparente delle responsabilità. Mettiamolo agli atti. Il problema non è Philip Morris, il problema non sono le lobbies, il problema è la democrazia, la vetocrazia, la fuga dalle responsabilità.  Una democrazia malata che i movimentisti pentastellati dicevano di voler curare e che sembrano invece aver aggravato, ingegnerizzando l’elusione della trasparenza e del rendiconto politico.

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