Con l’approvazione delle mozioni di fiducia di Camera e Senato il governo Meloni è nella pienezza dei suoi poteri. Per Costituzione, infatti, non basta che il governo sia nominato dal presidente della Repubblica e abbia giurato nelle sue mani (come avveniva in epoca statutaria) ma occorre che si presenti entro dieci giorni alle Camere per ottenerne la fiducia.

Tra giuramento e fiducia il Governo dovrebbe limitarsi alla cosiddetta gestione degli affari correnti; fase che, al pari del governo dimissionario, non può che essere interpretata in maniera diversa a seconda delle esigenze dettate dall’agenda politica, anche in campo europeo. Per eliminarla, basterebbe fare come in Spagna: nominare e fare giurare il Governo non prima ma dopo che abbia ottenuto la fiducia, come si conviene ad un sistema parlamentare dove il Governo fonda il proprio potere sul consenso delle camere. Ad ogni modo, quello che si è appena chiuso è stato uno dei più rapidi processi per la formazione del governo, conclusosi dopo appena un mese dalle elezioni politiche.

Il merito, se così si può dire, va al sistema elettorale, tanto vituperato ma che, almeno da questo punto di vista (altro è il tema della selezione dei parlamentari), ha perfettamente adempiuto alla sua funzione di coniugare rappresentatività (grazie ai seggi proporzionali nei collegi plurinominali) e governabilità (grazie ai seggi maggioritari nei collegi uninominali). Chi accusa tale sistema di aver sovra-rappresentato il centrodestra (che con il 44% circa dei voti ha ottenuto quasi il 60% dei seggi, grazie ai 123 su 147 deputati ed ai 59 senatori su 74 eletti nei collegi uninominali) dimentica che tale risultato è dovuto ad una precisa ragione non tecnica ma politica: la capacità dei partiti di centrodestra, al contrario di quelle di centrosinistra, di unirsi in coalizione, per conquistare i collegi maggioritari. Capacità che è il presupposto minimo per proporsi agli elettori come futura maggioranza di governo del paese.

Il centrosinistra tale capacità non solo non l’ha avuta ma il segretario uscente del Partito democratico ha candidamente ammesso – non si capisce se per sfacciataggine o incoscienza – di aver costruito un’alleanza solo elettorale e non di governo. Alla prova del voto di fiducia entrambi i blocchi di maggioranza e di opposizione hanno tenuto, come era ragionevole attendersi ad inizio legislatura in una votazione – come quella fiduciaria – che la Costituzione vuole per appello nominale così da responsabilizzare i singoli parlamentari di fronte agli elettori che li hanno votati e ai partiti che li hanno candidati (in Germania, al contrario, l’elezione del Cancelliere avviene a scrutinio segreto: almeno in questo un modello da non imitare). Non a caso, come accaduto in passato, la nascita di nuovi governi in corso di legislatura segna talora la nascita di aree di dissenso all’interno dei gruppi politici, con conseguenti dimissioni o espulsioni e formazione di nuovi gruppi.

A proposito dei gruppi parlamentari, recentemente costituitisi, è opportuno svolgere tre considerazioni su aspetti così evidenti da essere sfuggiti ai più. Innanzi tutto, esaminando la consistenza numerica e la composizione dei gruppi, si nota che mentre, come detto, il centrosinistra ha ovviamente più eletti nel proporzionale (Pd 57 deputati su 69, M5s 41 su 52, Azione-Italia viva 21 su 21), nel centrodestra invece, mentre in Forza Italia il rapporto è in perfetto equilibrio (22 deputati sia nel proporzionale che nel maggioritario), nella Lega Salvini Premier il numero dei deputati eletti nel maggioritario è di gran lunga superiore a quelli del proporzionale (43 contro 23). Il che significa che la Lega ha ottenuto molti più seggi (il 16,5% alla Camera, il 14,5% al Senato) rispetto al circa 9% dei voti ottenuti dalle sue liste.

Questo non perché la Lega abbia sfruttato il suo radicamento nel Nord ma per la semplice ragione che, nella preventiva spartizione dei candidati uninominali nella coalizione di centrodestra, la forza elettorale della Lega è stata ampiamente sovrastimata, attribuendogli un numero di candidati alla Camera (70, secondo il famoso foglietto sottoscritto dai quattro leader) ben superiore al suo effettivo consenso elettorale (basti pensare che a Fratelli d’Italia, che ha ottenuto il triplo di voto, l’accordo attribuiva 98 candidati uninominali alla Camera, appena 28 in più). Questo costituisce già un primo indizio di come la consistenza parlamentare non rispecchi fedelmente la consistenza elettorale e i rapporti di forza all’interno della coalizione di centrodestra.

A ciò va aggiunto un secondo aspetto, invero non nuovo: sempre grazie agli accordi preelettorali hanno avuto ingresso in Parlamento forze politiche che non solo non hanno superato lo sbarramento del 3% (come +Europa) ma addirittura non hanno apportato alcun contributo elettorale alla coalizione di cui facevano parte, restando al di sotto dell’1% (come Noi Moderati). Ebbene, queste forze politiche sono ugualmente presenti in Parlamento grazie al fatto che i loro leader sono stati eletti nei collegi uninominali con il sostegno delle coalizioni che avevano deciso di appoggiare. In tal modo, ancora una volta, si è “proporzionalizzato il maggioritario”, sfruttando i collegi uninominali blindati per dare rappresentanza a forze politiche non in grado di superare la soglia di sbarramento, contro il loro impegno di sostenere la coalizione. Il che dimostra ancora una volta come, in assenza di una tradizione politica come quella anglosassone, la logica maggioritaria viene vissuta dalle forze politiche come una camicia di forza da distorcere in funzione dei propri interessi elettorali.

Infine, c’è un terzo elemento che conferma il disallineamento tra dato elettorale e rappresentanza parlamentare. Proprio a causa dell’insuccesso elettorale, Noi Moderati non raggiungeva il numero di sei senatori occorrente per costituire un gruppo parlamentare autonomo al Senato. Eppure, si è costituito lo stesso in gruppo grazie alla decisiva adesione di tre senatori eletti per Fratelli d’Italia (Petrella, Salvitti e Guidi). È il cosiddetto “prestito dei parlamentari”. Una pratica non nuova, certo politicamente giustificata dall’esigenza non solo di avere risorse ma anche di poter essere presenti nelle commissioni (per bilanciare i gruppi Per le Autonomie e misto, composti in maggioranza da esponenti del centrosinistra), nelle quali il vantaggio della maggioranza sull’opposizione rischia di essere esiguo, tanto più dopo la nomina a ministri di ben nove senatori che in ragione del loro incarico non sempre potranno essere presenti.

Quella del prestito dei parlamentari è però essenzialmente una pratica non commendevole perché costituisce un’ulteriore alterazione del dato elettorale, permette di fatto ad un gruppo (Fratelli d’Italia) di controllarne un altro (pena il suo scioglimento), e potrebbe essere funzionale a future migrazioni parlamentari nell’area centrista, considerando come il tempo indebolisca inesorabilmente soprattutto Forza Italia. Insomma, siamo dinanzi ad uno scenario politico oggi apparentemente solido ma in cui si intravvede qualche disallineamento tra dato elettorale e consistenza parlamentare e che, nella piena tradizione italica, potrebbe presto o tardi dimostrare che anche quello Meloni non sarà un governo di legislatura.