Parlare di Stati generali – come ha fatto Conte impegnandosi a diramare la convocazione – è sempre impegnativo. Il pensiero corre a quell’episodio storico da cui prese avvio la Rivoluzione francese. Poi un secolo dopo venne – raffigurato in un quadro – la rappresentazione del Quarto Stato. Vi erano sempre però dietro a quegli Stati un cumulo di interessi forti, che cercavano uno spazio di potere che gli era precluso. Oggi sono cambiati gli interessi in campo e la loro stessa rappresentanza. L’esempio da seguire non è quello di convocare centinaia di persone (con il distanziamento sociale ci vorrebbe uno stadio) per prendere nota della Babele delle loro rivendicazioni. Il modello non può che essere le Grand Dèbat condotto, in prima persona, da Emmanuel Macron allo scopo di recuperare lo smarrimento dell’opinione pubblica dopo l’esplosione della protesta dei gilet gialli. Agli Stati generali il governo deve portare una proposta. Che è negli eventi di questi mesi e si chiama Europa. Partecipando al War Room di Enrico Cisnetto, Mario Monti ha fatto una considerazione importante che induce a riflettere sul salto di qualità che il Paese è chiamato a compiere: «Questa volta – ha detto l’ex premier – il piano Marshall l’Europa se lo è fatto da sola».

Ed è vero. Solo l’Unione, in un mondo sconvolto dalla crisi sanitaria, sta tentando di promuovere una via d’uscita e di ripresa attraverso un’impostazione multilaterale che a livello globale non viene soltanto trascurata ma è addirittura combattuta apertamente dalla potenza a cui la storia, dopo il 1989, aveva offerto la guida dell’intero pianeta. È sempre sbagliato spiegare le cronache del presente con le storie del passato. Ma, a pensarci bene, ci sono delle analogie tra il pacchetto di misure (2400 miliardi) messe in campo, in una prospettiva poliennale dalle istituzioni europee e il Piano che nel 1947 (per un ammontare di 13 miliardi di dollari tra il 1948 e il 1951, un cifra enorme per quei tempi) venne proposto dal segretario di Stato dell’Amministrazione Truman, George Marshall. Taluni aspetti significativi di quel passaggio storico sono descritti nel saggio di Elena Aga-Rossi e di Victor Zaslavsky Togliatti e Stalin (il Mulino, 1997). Gli autori ricordano che gli aiuti americani vennero offerti a tutti i Paesi europei, compresa l’Urss e gli Stati destinati a divenire, in un breve arco di tempo, satelliti di Mosca. Quelle risorse facevano gola a molti governi di nazioni che dovevano curare le ferite umane e materiali determinate da un aspro conflitto che aveva attraversato i loro territori seminando morte e distruzioni.

L’Urss e taluni governi della sua area d’influenza (in particolare la Cecoslovacchia e la Polonia) presero parte ad alcuni incontri a livello internazionale per discutere del Piano. E ovviamente questa linea di condotta del Paese-guida orientò un atteggiamento di prudenza degli stessi partiti comunisti dell’area occidentale. In seguito all’inasprimento dei rapporti tra i Paesi vincitori della Seconda Guerra mondiale, il governo sovietico si convinse, sulla base di rapporti dei Servizi, che il vero obiettivo del piano Marshall consisteva nella creazione di qualche organismo europeo che avrebbe facilitato l’interferenza degli Usa negli affari economici e politici dei Paesi europei. Alla fine prevalse, attraverso il Cominform, la direttiva staliniana, la quale, con riferimento ai partiti comunisti dell’Occidente, proclamava che «per far fallire il Piano Marshall sono necessari gli sforzi di tutte le masse democratiche europee antimperialiste (in Francia, in Italia, in Inghilterra, ecc. ndr)» a cui era affidato il compito di «sventolare la bandiera della difesa dell’indipendenza e della sovranità del propri Paesi». Da quel momento cominciò la lotta contro «le conseguenze catastrofiche del Piano Marshall». Abbiamo già suggerito di usare cautela nei voli pindarici della Storia.

Ma viene spontaneo giustapporre – magari a parti invertite e con altri protagonisti – le argomentazioni, persino le parole di allora con quelle che trasudavano, con toni più o meno volgari, dalle piazze romane del 2 giugno. Ma dal loro punto di vista (lasciamo l’ex generale Pappalardo a recitare la comica finale vestito di arancione) Giorgia Meloni e Matteo Salvini non hanno torto. Sono coerenti con la loro strategia politica che vedono in procinto di essere sconfitta. Lo sforzo finanziario dell’Unione (che raccoglie delle istanze poste dal nostro Paese, in precedenza neglette) non ha carattere congiunturale (a queste finalità hanno provveduto i singoli Stati con le misure d’emergenza adottate e la Bce con l’acquisto dei titoli pubblici dei Paesi in maggiore difficoltà); ma rappresentano una svolta di carattere strutturale che prima di essere finanziaria ed economica, è politica. La gestione di un pacchetto di risorse – solo dal Next Generation Europe l’Italia si aspetta 172 miliardi nell’ambito del bilancio poliennale 2020-2027 di cui 81-82 miliardi a fondo perduto (il che non significa “spendili come ti pare”, ma soltanto che non li devi restituire) – sarà rivolta verso obiettivi comuni, scelte di indirizzo innovative (le infrastrutture, i servizi, le nuove tecnologie, le riforme dei sistemi di welfare, la green economy, la formazione permanente, l’istruzione e la ricerca, ecc.), sulla base non più di promesse menzognere ma di precisi progetti transnazionali.

Per farla breve, se sta al gioco, un Paese deve caricarsi di tutto il pacchetto: potrà ottenere risorse preziose per la rinascita, concedendo in cambio sovranità (come scrisse Lorenzo Bini Smaghi all’inizio della discussione su quanto allora riguardava i cosiddetti “eurobond”). È illusorio, pertanto, ipotizzare un governo o anche una convergenza tra le principali forze politiche del Paese. Entrare nella logica del Piano Marshall, made in Eu, significa partecipare a un salto di qualità dell’integrazione europea. Come i comunisti nel dopoguerra, di stretta osservanza sovietica, non potevano accettare il piano Marshall che comportava la scelta delle libertà politiche ed economiche, della democrazia e dell’economia di mercato, così i sovranisti nostrani ed europei dei giorni nostri sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi per sottrarsi alla trappola in cui si sono cacciati rilanciando di continuo nuove rivendicazioni verso Bruxelles nella speranza di incassare solo dei no. Salvini e Meloni si trovano nella stessa posizione del bullo che intima alla ragazza a cui ha dato un passaggio in auto un secco «me la dai o scendi»; e che viene messo in crisi quando riceve una risposta affermativa tanto da indurlo a discendere lui dall’auto e a fare ritorno a piedi.

Conte ha una carta da giocarsi: cercare, nell’occasione degli Stati generali, un dialogo e un accordo con le parti sociali, che in fondo rimangono, all’interno di una società liquida e scompaginata, degli interlocutori seri, rappresentanti di interessi reali – corrispondenti, nella loro sintesi, a quelli generali – e che non agiscono al solo scopo di imbonire l’opinione pubblica per guadagnarne un consenso purchessia.