La crisi di governo e il conflitto in Ucraina
Intervista a Ferdinando Nelli Feroci: “Da cinici mettere a rischio il governo per calcoli pre-elettorali”
Il mondo non si ferma per attendere la conclusione della crisi di governo in Italia E, soprattutto, non si ferma la guerra in Ucraina con i suoi orrori e le pesanti ricadute sullo scenario europeo e internazionale. Il Riformista ne discute con l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai). Nelli Feroci è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri. Ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014.
Quanto alla crisi innescata da Conte, il giudizio dell’ambasciatore Nelli Feroci, espresso in articoli e confronti televisivi e ribadito nell’intervista a Il Riformista, è netto: una mossa “improvvida e cinica” motivata da “calcoli pre-elettorali ai quali è stato deciso di sacrificare la stabilità del governo in un momento in cui il fronte interno italiano è da presidiare per motivi evidenti, se mettiamo insieme la situazione economica attuale, con i problemi non ancora risolti lungo la filiera produttiva, tanto più vista la recrudescenza del Covid, e un quadro internazionale così complicato, con il conflitto in Ucraina destinato a durare a lungo e un’agenda europea su cui grava la crisi energetica”.
La guerra in Ucraina incrocia le vicende politiche interne ad alcuni Paesi che in quel conflitto sono comunque coinvolti: la Gran Bretagna e ora l’Italia. A Mosca si brinda alla crisi del governo Draghi. Ambasciatore Nelli Feroci, sul piano delle relazioni internazionali, cosa significa e quali ricadute può avere una vicenda politica come quella in piena evoluzione nel nostro Paese?
Le crisi politiche che si sono sviluppate nel Regno Unito e in Italia hanno origini, motivazioni e dinamiche diverse. Ma in entrambi i casi il conflitto in corso in Ucraina, e le sue conseguenze sui prezzi dell’energia e sull’inflazione, hanno avuto un impatto difficilmente negabile. Come minimo hanno contribuito ad aumentare un diffuso disagio sociale, almeno in parte collegato alle conseguenze della guerra, che non poteva non avere riflessi sulle dinamiche della politica. La crisi del Governo Draghi indebolisce uno dei Paesi che si erano schierati con determinazione e coerenza sulla linea della condanna dell’invasione russa, delle sanzioni e della assistenza all’Ucraina. Non sorprende che a Mosca si sia celebrata la decisione dei Cinque stelle di staccare la spina al Governo come un successo russo.
Quanto pesa nei vertici Ue e soprattutto nelle segrete stanze di Bruxelles in cui si prendono le decisioni più importanti e impegnative, l’autorevolezza di un primo ministro? Mario Draghi, ad esempio?
Pesa e in molte circostanze costituisce quel valore aggiunto che aiuta a difendere in maniera più efficace gli interessi del Paese. Competenza, conoscenza dei dossier, autorevolezza conquistata con esperienze pregresse, una buona conoscenza almeno dell’inglese e una rete di contatti personali possono sicuramente contribuire a rafforzare la posizione del Paese in occasione di vertici e più in generale nei negoziati internazionali. Ma non possono sostituire altri fattori determinanti quali la solidità del Governo e la compattezza della maggioranza che lo sostiene, il rispetto degli impegni assunti che è condizione di credibilità, una amministrazione che sappia dare seguito alle direttive della politica, la scelta delle alleanze giuste. In sintesi un capo dell’Esecutivo autorevole, e riconosciuto come tale dai suoi pari, può fare la differenza. Ma da solo non basta. Chi avrà il compito di governare il Paese dopo questa crisi avrà la responsabilità di fare le scelte giuste anche sulla collocazione internazionale dell’Italia.
La guerra sta ormai traguardando i cinque mesi. Si parla di nuove sanzioni, di altre armi all’Ucraina, con l’appello del presidente Zelensky perché le crisi politiche in Europa non fermino le forniture militari all’Ucraina. Sullo sfondo, neanche troppo sfuocato, c’è il baratro nucleare. La diplomazia ha alzato le mani in segno di resa?
Non sono mancati i tentativi, da parte di alcuni Paesi europei, di avviare una qualche interlocuzione con Putin per la ricerca di una soluzione diplomatica della guerra. La realtà è che hanno tutti dovuto fare i conti con la totale indisponibilità di Putin. Il motivo è che verosimilmente lo stesso Presidente russo non ha ancora deciso quale dovrà essere l’obiettivo finale della operazione militare speciale che sta conducendo in Ucraina. All’inizio doveva essere l’annientamento dell’Ucraina coma Stato sovrano e indipendente. Poi si è passati all’occupazione di parti del territorio ucraino. Di tanto in tanto si evoca un conflitto a tutto campo contro l’Occidente. Per quanto mi risulta neppure nella cerchia ristretta dei collaboratori di Putin si è capito quando e a quali condizioni il Capo del Cremlino potrà affermare che l’aggressione all’Ucraina è stata un successo.
Nel commentare le conclusioni del recente vertice di Madrid, questo giornale ha titolato: “La Nato si è venduta a Erdogan gli eroi di Kobane” in cambio del via libera della Turchia all’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza atlantica. Se questo non è un tradimento, lei come lo definirebbe?
Più che di tradimento da parte della Nato parlerei di “realpolitik”. L’adesione di Svezia e Finlandia serviva a dimostrare che Putin, che temeva una estensione a Est della Nato, ha di fatto favorito questa estensione. Erdogan ha sfruttato, con la abilità che lo contraddistingue, una congiuntura a lui favorevole che ha messo a disposizione della Turchia una inedita centralità nella agenda internazionale. Più che il trattamento dei curdi in Svezia però a Erdogan interessava soprattutto la ripresa di forniture americane di armi e aerei da caccia.
Si dice: pace giusta. E i più realisti aggiungono: c’è bisogno di un compromesso”. Ma quale? Visto che non appare realistico pensare ad un ritorno alla situazione pre-24 febbraio.
Come ho già accennato, non credo che ci siano i presupposti per un vero e proprio accordo di pace. Non riesco ad immaginare che Putin sia disponibile a rinunciare ai territori dell’Ucraina già occupati (il Donbass e il corridoio che collega il Donbass alla Crimea, forse Odessa?). Né che Zelensky possa accettare di cedere il 20% del territorio dell’Ucraina. Più verosimile un lungo conflitto a più bassa intensità, e una situazione congelata sul terreno che non potrà costituire la base per una intesa stabile e duratura. E di conseguenza uno sviluppo del conflitto che costringerà l’Occidente a mantenere le sanzioni e a rinviare “sine die” ogni ipotesi di normalizzazione dei rapporti con la Russia.
Esiste ancora una soggettività europea in grado d’incidere sulle scelte strategiche che investono la sua stessa sicurezza? O siamo ormai, di fatto, uno stato degli Stati Uniti d’America?
Di fronte ad una violazione così clamorosa di principi e regole minime della convivenza fra Stati, l’Europa non poteva che schierarsi con gli Usa su una linea di condanna della Russia e di assistenza al Paese aggredito. È però vero che la nostra esposizione alle conseguenze della guerra in Ucraina è superiore a quella dei nostri alleati americani, e che su alcune partite i nostri interessi strategici possono non coincidere con quelli americani. In particolare l’Europa deve evitare di farsi coinvolgere in uno scenario di contrapposizione frontale fra Occidente e resto del mondo. Non è facile perché la soggettività dell’Europa sulla scena internazionale è ancora un processo in corso, e perché gli interessi dei singoli spesso prevalgono sulla ricerca di una linea comune. Ma non ci sono alternative realistiche all’obiettivo di una Europa più protagonista sulla scena internazionale.
Per poter far fronte alla “crisi del gas” imposta dalla Russia, l’Italia bussa alle porte di paesi retti da regimi che non sono certo un esempio quanto al rispetto dei diritti umani: Turchia, Algeria, Egitto. Come la mettiamo?
Non avevamo molte alternative. Non siamo un paese produttore di fonti di energia fossile. Ed anzi, per scelte poco lungimiranti della politica, avevano addirittura bloccato la produzione di gas dai giacimenti off-shore dell’Adriatico. Nell’immediato a fronte di un obiettivo, condiviso in sede europea, di riduzione della nostra dipendenza dalle forniture russe di fonti di energia (soprattutto di gas) non potevamo che rivolgerci a quei Paesi che sono già nostri fornitori di gas grazie ad infrastrutture di trasporto già esistenti. E non potevamo che incrementare la nostra capacità di acquistare gas liquefatto da altri paesi produttori, con nuovi contratti di acquisto, ma anche con l’aumento delle nostre capacità di rigassificazione del gas che arriverà in Italia allo stato liquido. Nel medio termine però la sfida per l’Italia, e per l’Europa, sarà quella di conciliare gli obiettivi della sicurezza energetica con quelli già decisi a suo della transizione energetica e della decarbonizzazione. E quindi maggiore efficienza energetica, più riduzioni dei consumi, più rinnovabili, più investimenti in infrastrutture energetiche e forse un ripensamento sul nucleare di nuova generazione.
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