«Il decadimento etico e morale della società civile, soprattutto di quella del mondo occidentale, è palese e riguarda tutte le categorie». A recitare il de profundis della nostra società, anzi dell’intera società occidentale, non è stato né Putin né qualche ayatollah iraniano né qualche patriarca ortodosso filorusso. Vedremo alla fine a chi appartenga la frase, ma un nome e un cognome in fondo non hanno alcuna importanza.

La crisi dei valori in Occidente non è cosa che si scopra oggi ed evocare scenari così cupi dopo la presunta corruzione nell’Europarlamento non sembra il modo più appropriato né proporzionato per affrontare un tema cruciale nel funzionamento della democrazia. Il fatto che un’istituzione così importante sia macchiata dal sospetto di tangenti è grave, ma insomma non si può pensare che sia qualche malandrino a rappresentare la metrica dell’etica occidentale e della sua asserita decomposizione. Volumi e studi hanno scandagliato da qualche decennio il tema in ogni direzione, ma in verità solo alcuni filoni dell’estremismo religioso e politico ritengono che sia in corso una sorta di irrefrenabile decadenza morale all’interno delle democrazie. E’ vero che le società che popolano il variegato mondo dell’Ovest si stanno profondamente evolvendo; che antichi schemi di rappresentazione della realtà si stanno modificando; che plessi valoriali una volta ritenuti indistruttibili si stanno disgregando sotto il peso di nuovi costumi, di nuove visioni antropologiche, di culture improntate alla tolleranza più che all’identità.

Ma che l’Occidente cambi non vuol dire che sia sull’orlo del precipizio morale, che nuove Sodoma e Gomorra attendano di essere rase al suolo da immacolati catari rimasti a presidio dei costumi di società contagiate dal vizio. Dispiace che queste parole le abbia pronunciate – proprio in esordio alla classica intervista di fine anno sui problemi della giustizia in Italia – un magistrato tra quelli più in vista della Repubblica e sia pure in un contesto per molti altri versi meritevole di attenzione. Il nome del magistrato non importa. Se si trattasse di un nome, la questione sarebbe addirittura irrilevante: il punto è che quella frase condensa ed esplicita una convinzione profondamente diffusa in settori tutt’altro che marginali di una certa magistratura e di segmenti influenti della società italiana che la sostiene e fiancheggia.

Si denuncia il decadimento etico e morale di una società che, se ben si comprende, soffrirebbe di endemiche corruzioni e irreparabili cedimenti sul versante dei costumi individuali e collettivi. E rispetto a questa sconfinata distesa di macerie appare inevitabile che si debba mettere mano alla spada e menar fendenti a destra e manca per tentare di arginare le orde di infedeli che minacciano l’etica e la morale pubblica. E’ il punto d’attrito, forse il vero punto di irrecuperabile frizione, che corre tra una visione laica, mite, moderna, proporzionata della funzione giudiziaria, e un modo cupo, rancoroso, misantropo di concepire gli uomini, le loro debolezze, le fragilità dell’esistenza che guida talvolta le opzioni investigative e securitarie di un ceto sacerdotale che si sente assediato dal male.

Due le questioni in campo. E’ legittimo avere qualunque opinione sull’etica collettiva e sulla morale individuale; si può anche assecondare la tempesta ideologica che da ogni parte sta aggredendo le fondamenta della cultura occidentale e delle sue democrazie. Per certo non è lecito valutare le vicende giudiziarie, anche le più gravi, sotto il prisma di una visione eticizzante e moraleggiante che cerchi nel reo l’infedele e nel reato il tradimento. La corruzione sta letteralmente divorando l’Africa, il Sud-centro America, buona parte dell’Asia, Cina inclusa, gli oligarchi russi hanno accumulato ricchezze enormi; corruzione e democrazia non stanno a braccetto, né sono l’una il frutto avvelenato dell’altra. Basterebbe, d’altronde, aver fatto studi quanto meno regolari per ricordarsi di quanto funesta fosse la corruzione nei tempi più antichi, persino nell’età d’oro della Roma caput mundi (come ricordava Luciano Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma. Tangenti malversazioni malcostume illeciti raccomandazioni, Milano, Rizzoli, 1994).

Il secondo punto è tentare di stabilire quanto questa visione retriva, eticizzante, segregazionista della società che si vuole scomporre a fil di spada in buoni e cattivi, abbia inciso e incida sui protocolli di interpretazione della realtà, di punizione delle condotte, di ricostruzione dei reati; soprattutto di quelli a maglie larghe e ad alto tasso di elasticità e indeterminatezza. Affiora il sospetto che il precipitato processuale di questa impostazione siano inferenze, deduzioni, supposizioni, indizi che si incistano nelle sentenze, nelle ordinanze, nei decreti di prevenzione, nelle interdittive antimafia invocando la dignità di prove sol perché fondate su una interpretazione della società, dei suoi mali, delle sue devianze che non tollera obiezioni, né dubbi.

Il mondo occidentale sta cambiando rapidamente in ogni suo volto sinora noto; se il cambiamento è un decadimento non è questione che qualcuno può arrogarsi di fissare come precondizione della propria azione di purificazione pubblica. Almeno che non si sottoponga al voto degli elettori e ne consegua il consenso, come pure accade talvolta per alcuni politici. Certo è un linguaggio che incoraggia l’idea di un pubblico ministero inserito nella compagine del governo (come accade in altri civilissimi paesi) perché da quella posizione chiara ed evidente l’accusa risponda di ogni propria scelta che sia ideologicamente, moralmente o eticamente guidata.