Quando spiego agli studenti il principio di eguaglianza, e come la sua contraddittorietà con la libertà sia solo apparente (non è vero che se si è uguali non si è liberi; anzi non c’è vera uguaglianza senza libertà) faccio volentieri ricorso alla metafora sportiva della vita come una corsa, in cui ciò che conta non è arrivare al traguardo tutti insieme, ma partire tutti dalla stessa “linea”, senza subire handicap o penalizzazioni dovute a quegli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3.2 Cost.). Solo così è possibile che “siano in fatto uguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini” (A. Moro), in modo che ognuno di essi possa esprimere le proprie capacità e mettere a frutto i propri talenti.

Lo sport, quindi, ha un enorme valore paradigmatico di ciò che è la vita, con il suo continuo alternarsi tra vittorie e sconfitte, nel rispetto delle regole che ci si è dati e, prima ancora, di quel senso di lealtà che deve caratterizzare ogni sana competizione, di modo che alla fine vinca chi si è dimostrato più capace e meritevole, tanto per riprendere un’espressione che non a caso nella Costituzione è utilizzata a proposito di quell’ascensore sociale che è (dovrebbe essere) l’istruzione. È anche per questo, credo, che la notizia del comunicato sulla nascita di un campionato europeo di calcio al posto delle attuali Champions ed Europa League sta suscitando in queste ore un clamore tale da meritarsi l’apertura di quotidiani e telegiornali. Certo, in un paese di 57 milioni di commissari tecnici in cui il calcio è parte integrante dell’identità nazionale (a conferma della sua importanza), era scontato un così vasto interesse per un progetto che, se andrà in porto, rivoluzionerà il mondo del calcio per come è stato finora strutturato e vissuto.

Per questo motivo i paragoni con i progetti simili, varati in altri sport, come l’Eurolega del basket o la Superlega del volley, mi sembrano solo fino ad un certo punto calzanti perché certamente diverso è l’impatto sociale ed economico. Per lo stesso motivo solo in certa misura si può invocare come paragone il sistema della NBA dato che negli USA non esiste un ordinamento sportivo basato sulle singole relative federazioni. Il vero punto di discussione, e motivo di scontro di queste ore, è il significato che noi diamo al calcio, allo sport e, se mi è consentito, alla vita. Se cioè nello sport, come nella vita, chiunque debba avere il diritto di partecipare e, se capace e meritevole, di vincere, oppure se, al contrario, non debba essere il merito ma la forza economica e la ricchezza a prevalere. Se si può ancora credere che, grazie al sacrificio e all’impegno e all’uso intelligente ed accorto delle risorse finanziarie, un Chievo Verona, per dire, possa prendere parte alla serie A o l’Atalanta partecipare (e con merito!) alla Champions League oppure se un club, disdegnando le altre squadre, abbia diritto di partecipare sempre e comunque alla massima competizione europea in forza soltanto della propria forza economica e dei propri titoli nobiliari (non a caso abrogati dalla XIV disposizione finale della nostra Costituzione!).

Quella che si agita dietro il pur già di per sé importante tema della creazione di una SuperLega è quindi questione ancor più profonda, che tocca il tema del rapporto tra società e mercato, tra diritti ed economia, tra eguaglianza e libertà, come dicevamo all’inizio. Se, cioè, vi devono essere regole che devono valere per tutti e nell’interesse di tutti, dalla squadra più forte e ricca a quella della terza categoria, in base alle quali è, e deve essere sempre, il campo – e cioè il merito – e non altro, a stabilire valori e gerarchie.

Oppure se, in nome di un malinteso principio di libertà d’iniziativa economica – per cui i club sono dei proprietari che possono deciderne il destino, recidendo il legame con le città che rappresentano e con i tifosi che le sostengono – il calcio debba perdere i suoi connotati di passione sociale per trasformarsi definitivamente in mero business in cui il merito economico deve sempre prevalere su quello agonistico e sportivo, a tutto svantaggio delle squadre medio-piccole, anche quando rivelazione, relegate al ruolo di mero serbatoio delle grandi. Un progetto certo affascinante e remunerativo per i grandi club (dietro a cui non a caso sta JP Morgan), ma ingiusto e triste per gli altri. Insomma, parafrasando Bennato, come per le canzonette potremmo dire che “non sono solo partite…”.