Il focus
“Le indagini della difesa costano troppo, così i Pm vincono sempre”, parla l’avvocato Larosa
In un sistema in cui i processi penali durano anni, in cui le inchieste della Procura si basano sempre di più sul contenuto di colloqui intercettati e investigazioni tecniche rispetto ai quali ci si può difendere solo nominando a propria volta consulenti e svolgendo indagini costosissime, la giustizia è davvero uguale per tutti? È davvero alla portata di tutti? Ne parliamo con l’avvocato Bruno Larosa, penalista, docente universitario e autore del romanzo Fortunato, giallo giudiziario che affronta tra gli altri anche il tema spinoso e attuale dell’iniquità del sistema giudiziario penale italiano.
Partiamo da una premessa: «Le indagini difensive trovano il loro fondamento giuridico e culturale nell’articolo 111, comma 2, della Costituzione che prescrive, per ogni processo, che esso si svolga nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità davanti a un giudice terzo e imparziale». «Il dettato costituzionale, dunque, descrive un preciso profilo del processo penale, di una chiarezza assoluta – spiega Larosa – Come può realizzarsi questa idea di processo penale senza consentire alla difesa di difendersi provando di essere innocente o che una serie di elementi raccolti dall’accusa siano falsi o imprecisi?». È evidente che nel processo c’è uno sbilanciamento a favore dell’accusa.
«Nel nostro Paese – osserva Larosa – c’è una situazione paradossale: ogni riforma, anche quelle costituzionali, trova una forte resistenza negli apparati conservatori che sono gli stessi che sono deputati ad applicarla. Per restare al processo penale, anche in tempi recenti abbiamo assistito al fallimento di quella fondamentale del 1988; è successo perché chi la doveva rendere operativa sul piano pratico l’ha osteggiata fino a farla deragliare creando un mostro inutile e dannoso. È facile prevedere che anche l’attuale riforma Cartabia avrà medesima sorte». Una resistenza la si nota anche rispetto alle indagini difensive, fondamentali sia per l’indagato sia per la parte offesa, eppure ancora poco diffuso, colpa di fattori culturali ed economici. «Chi deve applicare le norme è culturalmente un conservatore anche rispetto all’attuazione concreta di questo istituto – sottolinea Larosa – Si tende a interpretare le norme in maniera restrittiva lasciando il sospetto che dietro le indagini difensive ci possa essere il condizionamento della persona informata da parte del difensore o da parte dello stesso cliente».
La questione, quindi, è in larga parte culturale. «Il problema è che c’è ancora chi crede che il giudice debba essere la terza gamba dell’accusa, nel senso che deve sopperire alle carenze istruttorie del pm. In trentacinque anni di professione sarò stato sfortunato, ma non ho mai visto che il giudice sopperisse d’ufficio alle carenze e alle eventuali mancanze della difesa». «Quindi – osserva Larosa – non si tratta solo di garantire un’effettiva parità delle armi tra accusa e difesa, ma assicurarsi che il giudice sia terzo e imparziale. L’indipendenza e l’imparzialità sono il tema fondamentale che non riguarda solo il legislatore e l’esecutivo, ma il principio va assicurato all’interno dei rapporti della magistratura».
La separazione delle carriere tra pm e giudici è alla base di un cambiamento che resta solo teorico e mai pratico, di una parità reale tra i poteri dell’accusa e i poteri della difesa. «Il problema è di chi è chiamato ad applicare le riforme», sottolinea Larosa. «Sono naufragate decine di riforme nel nostro Paese perché chi era chiamato ad applicarle veniva dal passato e si era formato su vecchi principi che naturalmente tendeva a conservare». Oltre a quello culturale c’è poi il fattore tempo, che si tramuta anche in un fattore costo. «Andiamo verso un processo molto costoso per il cittadino. Bisognerebbe evitare che almeno le spese per gli atti giudiziari siano a carico dell’imputato fino a quando non ci sia una sentenza di condanna». Il processo penale costa molto in termini di soldi – basti pensare al costo di consulenze, perizie, trascrizioni – e in termini di tempo. «E fa perdere all’indagato/imputato la gestione della propria dimensione temporale, lasciandolo in una situazione di attesa che non si sa quanto possa durare».
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