Come contare i voti
Legge elettorale: quale è la migliore per garantire stabilità e limitare le patologie del parlamentarismo
Nella gestione delle ultime incombenze prima del voto è difficile rimuovere i paletti fissati da Angelo Panebianco sul Corriere. Ammesso che un ritorno al proporzionale, oltre che fortemente auspicabile, sia anche compatibile con i tempi residuali della legislatura, resta un problema fondamentale: per quanto influente possa risultare, nessuna legge elettorale di per sé determina il carattere e la composizione quantitativa del sistema politico.
Un effetto miracolistico non lo ha sprigionato il maggioritario trent’anni fa. Benché agognato come viatico sicuro per acciuffare il bipolarismo in stile Westminster, il Mattarellum ha conservato una elevata frammentazione con ribaltoni e momenti di ingovernabilità. Persino il maggioritario di lista con vincitore predeterminato, il famigerato Porcellum del 2005, non ha arrestato lo sfaldamento delle coalizioni con la fuga di milioni di elettori. La cavalcata di una nuova onda populista nel 2013, spezzando la camicia di forza del gigantesco premio di maggioranza del 55% dei seggi al primo piazzato, ha imposto un (dis)ordine tripolare. Variabili sono le tecniche elettorali (l’Italia vanta un poco invidiabile record mondiale per il ricorso in trent’anni ad una infinità di meccanismi elettorali, alcuni dei quali per giunta dichiarati incostituzionali), mentre come dei colossi invarianti restano le condizioni cronicizzate di liquidità che impediscono il consolidamento di un qualsiasi sistema di partiti.
Senza incidere sulle situazioni di sfarinamento delle appartenenze politiche sarebbe un investimento piuttosto velleitario anche un ridisegno delle tecniche di voto secondo un criterio integralmente proporzionale. Se il canone proporzionale viene evocato non come una precondizione per ricostruire più solidi partiti di stampo europeo ma come la pozione magica, allora è meglio deporre ogni illusione: nessuna tecnica di conteggio dei voti ricostruisce il formato partitico se mancano leadership e culture politiche capaci di sorreggere una coerente strategia di ri-mediazione della democrazia. L’eliminazione della residua quota maggioritaria presente nell’attuale legge elettorale va perseguita come obiettivo ragionevole non già perché una tale misura correttiva sia in grado di restituire la vita a partiti defunti. Essa serve in quanto sgombera il campo dal grande equivoco degli ultimi trent’anni: la ipostatizzazione della coalizione che si afferma come soggetto autonomo della competizione.
Questo unicum italiano del soggetto coalizione è una mistificazione che non soltanto si decompone subito dopo il voto ma che, nel corso della gestione dei passaggi cruciali della legislatura, aggrava le disfunzioni del sistema. In una contesa che affida a pochi segretari di partito la nomina dei deputati, e porta un esercito di sconosciuti a Montecitorio al di fuori di ogni controllo dei cittadini, si registrano dei macroscopici fenomeni di transfughismo parlamentare che migrazioni bibliche attribuiscono al gruppo misto una composizione davvero abnorme. L’annuncio di misure punitive, escogitate in questi giorni per scongiurare cambi di casacca, trascura che il solo meccanismo di stabilizzazione che (in Spagna e in Germania) assicura un robusto antidoto al trasformismo e al nomadismo dei deputati è costituito dal dispositivo costituzionale della sfiducia costruttiva. I ritocchi dei regolamenti delle Camere per ostacolare il disinvolto transitare da un gruppo all’altro sono dei semplici palliativi che non incidono più di tanto nella reale funzionalità del governo parlamentare.
Un disegno proporzionale più coerente in Italia è di sicuro auspicabile non già perché sia propedeutico a una miracolosa resurrezione dei partiti, ma in quanto, obbligando ciascun attore a correre con le forze e i simboli propri, elimina la finzione di aggregazioni fantoccio che alterano la distribuzione dei seggi e, una volta superato il momento elettorale, evaporano. La frammentazione post elettorale infrange ogni vincolo programmatico che pure è alla base della rappresentanza politica. Partiti che si presentano al voto in autonomia e poi negoziano le aggregazioni parlamentari possibili sul terreno politico sono di gran lunga preferibili rispetto a coalizioni solo apparentemente unitarie che in aula si sgretolano con i partner che assumono differenti collocazioni nelle maggioranze a sostegno dei governi. Sono palesi gli effetti perversi della finzione dell’unità coalizionale, esibita dinanzi al voto e ben presto tradita per calcoli politici e obiettivi strategici confliggenti. Oltre alla credibilità dei soggetti politici, che stipulano dopo il voto alleanze imprevedibili, anche la resa dei meccanismi parlamentari è seriamente compromessa dalla cappa coalizionale.
La finzione della coalizione non ha impedito, per restare solo a quest’ultima legislatura, dapprima alla Lega di separarsi dagli alleati per accordarsi con i grillini e poi a Salvini e a Berlusconi di seguire politiche di alleanze opposte a quelle di Fratelli d’Italia. Le mani libere, che si presentano in ogni emergenza malgrado la mistica della coalizione, sono pratiche del tutto fisiologiche in un regime parlamentare, che di norma vede però una autonoma partecipazione di ciascun partito alla competizione cui fa seguito un lavoro di raccordo che si sviluppa in aula dopo il responso delle urne. Per questo la coalizione immette un elemento di forzatura nel reperimento del consenso che un meccanismo integralmente proporzionale tende ad eliminare favorendo la rinuncia al bipolarismo di cartapesta sorretto dalla sola necessità di non soccombere nei collegi uninominali. Il bipolarismo coalizionale rappresenta un elemento di forte rigidità che, contro lo spettro di una alleanza giallorossa, costringe a costruire un eterogeneo polo di destra che spegne le inestirpabili tendenze centripete che si affacciano nelle fasi politiche più delicate per il sistema.
La proporzionale di per sé non restituisce vigore al simulacro di partito, può invece rivelarsi ugualmente utile recidendo il bi-populismo in gestazione per spalancare una competizione politica non più ossificata. La virata proporzionalista può essere congeniale alla maturazione di una offerta politica dinamica con la quale una distinta area di centro, affrancata dalla confluenza obbligata con la destra sovranista, può presidiare con autonomia il proprio spazio e per il governo guardare a sinistra (anch’essa liberata dalle alchimie magiche dei campi larghi edificati con la sola ragione di non perdere). Solo specificando puntualmente l’obiettivo di sistema connesso alla riforma di tipo proporzionale (scongelamento del bi-populismo meccanico con distinte formazioni politiche quali argini a derive centrifughe e a polarizzazioni schematiche) si può rispondere alle perplessità di Panebianco.
La malattia terminale di un regime politico che in tre anni esprime tre opposte maggioranze di governo non ha cause meramente tecnico-elettorali e però il ritrovato della coalizione insincera aggrava le patologie del parlamentarismo che con difficoltà sopravvive senza più attori di partito. L’opzione proporzionalista merita di essere assecondata come positivo aggiustamento di sistema senza per questo accarezzare futili promesse del marinaio che, con il modico ritocco delle tecniche del conteggio delle schede, garantiscono ad un malandato circolo politico-mediatico il rendimento del sistema di partito tedesco. Anche se il proporzionale non ritorna e tutto rimane intatto sino al voto, è inutile prefabbricare alibi, nulla infatti impedisce ai partiti, entro qualsiasi congegno elettorale, di dotarsi di una minima struttura organizzativa, di affinare dei coerenti profili identitari in sintonia con le principali famiglie culturali europee.
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