Ho molto apprezzato l’analisi e le proposte dell’amico Gianfranco Schiavone sul Riformista pubblicate ieri nelle quali mi riconosco pienamente. Abbiamo impegni verso il popolo afghano ai quali non possiamo sottrarci. È chiaro che dobbiamo provarci a chiedere e sostenere l’applicazione della direttiva del 2001/55, definendo un meccanismo di redistribuzione a prescindere dal Paese di primo ingresso.

Realisticamente la situazione politica in ambito Ue non ci aiuta: le elezioni in Germania di qui a pochi giorni, quelle in Francia tra qualche mese, mi sembrano un ostacolo non facilmente sormontabile per l’ansia ormai diffusa in Europa di considerare il tema dei rifugiati e dei migranti un punto di debolezza per l’acquisizione del consenso degli elettori. Dovremmo essere capaci di cambiare questo sentimento e questa percezione che nascono spesso dalla cattiva informazione e dall’ignoranza. Sembrerò riduttivo, ma vorrei almeno riuscire a proporre una svolta di saggezza su quello che accade in Italia; soprattutto per i 5mila profughi che le nostre forze armate hanno sottratto al tallone del regime talebano. E allora mi domando: perché ancora indugiamo a rilasciare un decreto che gli riconosca lo status e consenta loro una condizione differente dal limbo dei richiedenti asilo?

Qualcuno mi parla di un possibile Dpcm, non capisco il perché e non capisco nemmeno la necessità di questa norma in presenza di una condizione di persone che noi conosciamo, che abbiamo scelto di tirare fuori dall’inferno di Kabul e che abbiamo portato in Italia con gli aerei della nostra Aeronautica militare. Non è certo necessario il colloquio con le commissioni competenti perché le motivazioni sono già note e le abbiamo in sostanza certificate portandoli via dall’Afghanistan. In Regione Campania li abbiamo già considerati come tali offrendo loro, nel periodo di quarantena, un servizio non solo professionalmente qualificato, ma accompagnato anche dalla generosità e dall’affetto di tanti nostri concittadini. Sono sicuro che altre regioni abbiano fatto lo stesso aiutandoli a superare i primi momenti di incertezza e smarrimento. Il Decreto che riconosce lo status consentirebbe da subito ai rifugiati, che spesso hanno professionalità acquisite nel loro paese, di trovare un posto di lavoro, muoversi sul territorio legittimamente, godere del nostro welfare a cominciare dal Servizio Sanitario nazionale: sarebbe altresì possibile, per alcuni di loro, muoversi in area Schengen per eventuali ricongiungimenti familiari ed avviare in concreto quel percorso di integrazione e inclusione che tutti auspichiamo.

Un secondo tema che un po’ mi sconcerta sono le destinazioni che sono state scelte per loro. Molti prefetti con intelligenza e lungimiranza hanno cercato appartamenti o sistemazioni nel mondo del terzo settore adeguato a famiglie con bambini e persone anziane. Ma una circolare del Ministero offre la possibilità di destinarli anche nei centri di prima accoglienza: un errore tragico perché in quei centri rischiamo di far convivere, con servizi peraltro ridotti, sia i nostri amici afghani sia coloro che negli ultimi mesi sono sbarcati a Lampedusa e da qualche altra parte e che sono in attesa di conoscere il proprio destino. Perché non utilizzare i centri Sai del servizio nazionale? E se non ci sono posti sufficienti perché non consentirne rapidamente l’ampliamento?

Si tratta di progetti comunali molto più adeguati per capacità e servizi offerti ad avviare percorsi di integrazione e di inclusione, peraltro garantiti dall’autorità del sindaco nel Comune nel quale esistono e sono sottoposti a controlli efficaci. Credo che superata l’emozione dei primi momenti bisogna intervenire in modo da limitare il disorientamento, se non in qualche caso la delusione di chi ha creduto e crede nei valori del nostro Paese e che da qui intende ricominciare a costruire il proprio futuro.