Probabilmente è il primo ministro della Giustizia del quale erano chiare le idee e precisi i propositi ben prima della nomina alla guida di via Arenula. Carlo Nordio arriva allo scranno parlamentare e alla poltrona ministeriale seguendo un percorso rettilineo e scevro dalle opacità che hanno segnato il passaggio di qualche altra toga alla politica. Tutti gli riconoscono, anche tra gli avversari, una carriera in magistratura portata a termine con impegno e passione, una cultura storica e filosofica di assoluto rilievo, un’attività di commentatore dei fatti di giustizia sulle colonne del Messaggero non priva di polemiche e con posizioni spesso antagoniste rispetto alla mainstream giustizialista, ma sempre contenuta nei toni.

In questo scenario è del tutto prevedibile che la maggioranza di governo si appresti a scelte sul versante della giustizia che rapidamente porteranno il nuovo esecutivo a collidere con le mille resistenze e le mille obiezioni che, da anni, paralizzano ogni radicale innovazione del sistema giudiziario italiano. Due indicatori segnalano il quasi certo volgere del barometro nel quadrante della tempesta. Il governo Meloni ha una forte connotazione ideologica e identitaria. Il fronte giudiziario è, come abbiamo detto in altre occasioni, quello in cui più facilmente (e, quindi, più rapidamente) si può dare prova della reale intenzione di dar corso a riforme senza l’aggravio di costi economici al momento insostenibili.

Pensioni, tassazione, sostegno all’occupazione e alle imprese sono territori minati vista la condizione finanziaria del paese, ma per la giustizia i costi di molte innovazioni sono davvero prossimi allo zero. Per giunta il ministro, nella sua prima dichiarazione pubblica, ha annunciato di voler procedere anche a una radicale spending review nel bilancio di via Arenula con l’intenzione – evidentemente – di voler alimentare i propositi di riforma della macchina giudiziaria con risorse da reperire nelle pieghe delle somme già a disposizione, o quasi. È evidente che il premier ha necessità di far cogliere alla pubblica opinione la novità del primo governo di destra della storia repubblicana e che, quindi, dovrà chiedere ai ministri il massimo impegno per i primi, fatidici 100 giorni dall’insediamento del suo gabinetto. Nordio è tra i pochi ministri, forse l’unico a quanto si sappia, che ha nel cassetto progetti e idee da mettere subito in campo.

Ha presieduto una commissione per la riforma del codice penale, ha enunciato da tempo alcuni capisaldi del suo progetto di modifica dell’ordinamento giudiziario, ha l’esigenza di conseguire anche alcune modifiche costituzionali di più lungo periodo, intende completare le riforme messe in cantiere dalla Cartabia. Insomma, dispone di un palinsesto di tutto rispetto. Si potrebbe decidere di calare tutte le carte in un sol colpo sul tavolo da gioco nella convinzione che chi intenda opporsi non potrebbe mettersi di traverso su tutto il pacchetto e molte innovazioni potrebbero anche avere il sostegno dei gruppi parlamentari di Calenda e Renzi.

A questo sfondo, impregnato tutto di realpolitik, si affianca il fatto che il principale interlocutore del ministro, ossia la magistratura italiana, attende con una certa trepidazione la scelta parlamentare della componente laica del Csm e non ha interesse a spalancare anzitempo le porte di Giano. Anche su questo versante, infatti, non mancano calcoli e tatticismi. In caso di accordo con i gruppi del Terzo polo, la maggioranza di governo sarebbe in grado di coprire la totalità dei 10 scranni da occupare a Palazzo dei marescialli, lasciando ai “calenziani” l’onere di rappresentare la minoranza parlamentare entro il Csm. Questo priverebbe la componente togata che, come noto, annovera 20 membri della possibilità di orientare la scelta del vicepresidente verso un rappresentante dei partiti di centrosinistra, ossia dello schieramento ritenuto, a torto o a ragione, il meno ostile verso le toghe. È evidente che, visto l’imminente addensarsi di nuvole all’orizzonte, l’opzione più semplice sarebbe quella di fortificare Palazzo dei marescialli al fine di organizzarvi una sorta di ridotta da cui condurre la resistenza alle iniziative ministeriali meno gradite.

Una cittadella assediata, certo, ma che guidata da un autorevole vicepresidente, distonico rispetto ai progetti della maggioranza politica in auge, potrebbe rendere difficile il percorso delle riforme. Una pietra d’inciampo rispetto alla quale si gioca una partita tutt’altro che semplice. I canoni fondamentali della democrazia pretenderebbero un sistema di check and balance che non veda praticamente tutti i principali palazzi del potere istituzionale (Parlamento, Governo, Csm) presidiati da un’unica compagine politica. Un’alterità politica del Csm rispetto al ministero di via Arenula non sarebbe, in teoria, un assetto da disprezzare. Nella pratica gioca contro questa soluzione il fatto che la mobilitazione delle toghe nei prossimi tempi potrebbe essere imponente e massiccia; altro che lo sciopero di qualche mese or sono, che ha pur registrato una zoppicante partecipazione.

Tutti sanno – e lo stesso presidente Santalucia lo ha riconosciuto con grande onestà all’ultimo congresso dell’Anm – che la legge elettorale di nuovo conio non ha saputo interrompere la linea di continuità tra i gruppi associativi e la rappresentanza nel Csm. E questo è un fattore che porterebbe necessariamente grande fibrillazione nell’organo di autogoverno se dovesse davvero profilarsi uno scontro duro tra toghe e politica. La tentazione della maggioranza di fare l’en plein tra i dieci componenti di nomina parlamentare è, quindi, forte e per resistervi sarà necessario che tutti i partiti, e le opposizioni tra essi, individuino candidati di grande prestigio e autorevolezza da presentare ai 20 togati come probabile prossimo vicepresidente. Certo il ministro Nordio non invoca carta bianca, ma è chiaro che nessuno vuole precostituirsi avversari insidiosi.