La sentenza d'appello di Palermo/2
Non favorimmo Provenzano, indagare sul perché la magistratura non indagò: la verità del generale Mori
Le vicende esaminate processualmente dimostrano, per ciò che mi riguarda, che non vi furono mancanze giuridicamente rilevabili. Qualcuno ha detto però, e certamente altri continueranno a sostenerlo, che “Mori sbagliò”, forse non violando il codice, ma certo nella valutazione delle conseguenze delle sue scelte operative. Scelte che avrebbero indotto in Salvatore Riina la convinzione che lo Stato, dopo Capaci, potesse essere propenso a trattare.
I miei critici ricavano quest’ultima conclusione dalle motivazioni della Corte di Assise di Firenze che, nella sentenza sulla strage dei Georgofili, prendendo in esame anche i contatti tra il Ros e Vito Ciancimino, peraltro esaminato attraverso un materiale probatorio molto limitato e non certamente comparabile alla mole di testimonianze e documenti valutati nei processi a mio carico, non escluse l’ipotesi di una trattativa, con connotazioni discutibili, tra elementi dello Stato – Mori e De Donno – e la mafia. Quei giudici, però, si astennero da qualsiasi conclusione, e nel demandare correttamente la specifica verifica dei nostri comportamenti ai procedimenti che avevano titolo per valutarli, affermarono: «Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del Ros (Mori, ndr) a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se cioè la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del Ros, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa» (Vds. Sentenza emessa dalla Corte di Assise di Firenze in data 6 giugno 1998 nel processo a carico di Bagarella Leoluca più altri).
L’esito dei ripetuti giudizi presso il competente Tribunale di Palermo, ha chiarito come il rapporto con Ciancimino non fosse un tentativo di realizzare un contatto indebito con la consorteria criminale, ma una “lodevole operazione” sviluppata nel corso di una precisa azione investigativa mirata a colpire la “cupola” mafiosa ed evitare nuove stragi. Quel Tribunale ha ritenuto che tale «finalità non potrebbe, di per sé, rivelare un atteggiamento volto a favorire le ragioni dei mafiosi e, anzi, dovrebbe senz’altro apprezzarsi come lodevole» ribadendo la «meritevolezza della finalità di evitare le stragi, obiettivo che poteva, in quel momento storico, considerarsi prioritario, in attesa della organizzazione di adeguate contromisure che consentissero di assicurare gradualmente alla giustizia i responsabili di quella stagione di inaudite violenze».
Dare per scontato, come sostengono i miei critici, che la Corte di Assise di Firenze avesse accertato l’esistenza di una “trattativa”, invece che, come avvenuto, avere demandato, a chi ne aveva competenza, la valutazione dei fatti connessi, serve solo a potere sostenere artatamente la tesi della mia colpevolezza. Un modesto espediente per tenere in piedi una polemica ormai speciosa e senza più argomenti. In base alle norme della procedura penale, avevo tutta la facoltà di contattare in maniera riservata elementi potenzialmente in grado di agevolare le nostre indagini, aggiungo che, stante la situazione che sopra ho descritto, la mia risoluzione appariva doverosa nel deserto delle iniziative dei vari organismi preposti al contrasto di “cosa nostra”.
Infine, avvalorare l’ipotesi che da parte del Ros vi fosse stata l’idea di favorire la fazione “moderata” di Bernardo Provenzano, così da ottenere in cambio elementi per contrastare l’ala “militare” del Riina, è un’indicazione azzardata e non supportata da elementi concreti. Infatti, oltre alla sentenza Fontana del 17 luglio 2013 che esclude qualsiasi tipo di favoreggiamento nei confronti del Provenzano da parte del Ros, è notorio che solo nel luglio 1993, con le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, si seppe che il latitante fosse ancora vivo, contrariamente ai convincimenti di tutti gli inquirenti dell’epoca. Peraltro sulla linea operativa del Provenzano, in piena sintonia con la rigida posizione corleonese, fanno fede inequivocabilmente le sentenze relative alle stragi mafiose del 1993/94 che lo indicano come compartecipe delle decisioni stragiste assunte da “cosa nostra”.
In ultimo, a questo proposito, vi è anche un’implicazione di ordine logico. L’asserita volontà di favorire l’ala “moderata” facente capo a Provenzano comporta logicamente che il Ros avesse il monopolio delle ricerche del latitante (così da proteggerlo), ovvero che avesse siglato un “accordo di protezione” anche con le altre Forze di Polizia che si occupavano delle sue ricerche. L’assurdità di questi presupposti è stata anche smentita dalla testimonianza del prefetto Luigi Savina, attuale vicario della Polizia di Stato, sentito nel processo a carico mio e del colonnello Mauro Obinu, ma la cui testimonianza è stata anche acquisita nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato/mafia, venendo anche citata nel testo della motivazione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo.
Ciò posto, constatare che l’attività del Ciancimino potesse suscitare, nel vertice mafioso, la sensazione del realizzarsi di un approccio finalizzato a uno scambio di una qualche utilità, era un dato che da sempre risulta scontato in ogni contatto, diretto ovvero indiretto, tra le istituzioni (esponenti della polizia giudiziaria) e la mafia (controparte), derivando dalla ormai secolare consuetudine che l’organizzazione ha avuto nel rapportarsi col mondo politico, istituzionale ed imprenditoriale, di cui sono piene le cronache anche recenti dell’Isola e altrove.
Nell’ottica di “cosa nostra” gli organismi rappresentativi della società sono sempre una controparte con cui intavolare un dialogo, o con accordi più o meno coperti, ovvero con la sopraffazione, realizzata con le minacce e la violenza.
I tentativi di provocare, nel gennaio 1994, una strage di Carabinieri allo Stadio Olimpico di Roma e, nel precedente 1993, la realizzazione degli attentati di Firenze, Roma e Milano, si configurano come l’attuazione di una strategia iniziata a Capaci e definita ben prima dei contatti del Ros con Ciancimino. Il tutto peraltro si inserisce storicamente in una striscia di sangue che viene da molto lontano. Infatti, ogni attività mirata a contrastare efficacemente l’organizzazione mafiosa ha provocato sempre reazioni violente e specifiche. Questa affermazione è dimostrata, nelle cronache, a partire dall’assassinio del sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo, nel lontano 1883, proseguendo ininterrottamente nel tempo sino a giungere al secondo dopoguerra, con le morti di Placido Rizzotto, Mauro De Mauro, Boris Giuliano, Cesare Terranova, a cui seguirono quelle dei già ricordati Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. I fatti di Capaci e via D’Amelio, così come quelli degli anni 1993/94, non sono che la conferma di questa costante del procedere mafioso.
Le critiche all’agire mio e di alcuni miei colleghi – Antonio Subranni, Mauro Obinu, Sergio De Caprio e Giuseppe De Donno – da cui sono derivate tre distinte incriminazioni con relativi procedimenti giudiziari, praticamente frutto della stessa vicenda operativa, potrebbero essere considerate come la doverosa valutazione a posteriori di fatti che hanno avuto rilevanza nazionale e su cui è lecito svolgere un puntuale esame. Se così fosse però, l’attenzione mirata e ripetuta, rivolta esclusivamente ad un reparto specifico e ad alcuni suoi rappresentanti in particolare, appare non coerente né giustificata alla luce di un esame corretto dei fatti. Se, infatti, si riteneva doveroso mettere pienamente a fuoco le modalità del contrasto alla criminalità mafiosa in un determinato momento della vita italiana, allora correttezza e completezza di analisi avrebbero voluto che pari attenzione fosse rivolta al complesso delle strutture istituzionali applicate nel settore, e cioè agli organismi politici, della magistratura e delle forze di polizia che concorrevano nel loro complesso alla sicurezza pubblica.
Non penso che negli altri enti tutto si sia svolto senza errori e con esiti pienamente soddisfacenti, almeno l’esame dei risultati non dice questo. Se poi vogliamo andare in profondità, allora dobbiamo considerare che il Ros era un reparto costituito solo nel dicembre del 1990, cioè già nel pieno dell’affermazione della componente più violenta di “cosa nostra”, quella corleonese. Mentre altri uffici e reparti operavano nel contesto siciliano praticamente da sempre e potevano quindi vantare dati, esperienze e qualificazioni professionali certamente superiori che però, nella fattispecie, non sono state convenientemente sfruttate. Sembra invece, dalle attività della magistratura requirente palermitana, che quasi tutti gli aspetti negativi derivino dall’attività di Mori e dei suoi colleghi e questo mi sembra una sintesi un po’ troppo facile se non addirittura culturalmente limitata. A questa conclusione ha posto ripetutamente rimedio la magistratura giudicante, compresa anche la Corte di Assise d’Appello di Palermo, con la sentenza del 23 settembre 2021.
Ora forse potrebbe essere giunto il momento in cui, con serenità e senza pretese esclusivamente punitive, si possa procedere ad un esame generale di vicende che hanno segnato drammaticamente la vita del paese, se non per individuare verità assolute, almeno per ottenere una ricostruzione credibile dei fatti. Questo è anche ciò che chiedono le famiglie delle tante vittime di quegli anni tragici. Con “cosa nostra” i Carabinieri del Ros hanno operato a viso aperto rischiando in proprio, nel doveroso tentativo di assolvere i compiti loro assegnati. Si poteva fare meglio? Certo, si può fare sempre meglio, ma intanto facendo prevalere i fatti sulle parole, abbiamo ottenuto risultati importanti, con una serie di operazioni culminate con la cattura di Salvatore Riina. In sintesi noi abbiamo agito tempestivamente e gli altri sono venuti dopo, a situazione chiarita, quando, come si dice in Sicilia, “la piena era passata”.
I contrasti, che sono successivamente nati tra il Ros da me diretto e la Procura della Repubblica di Palermo, non ci hanno consentito di proseguire nell’Isola, con la stessa efficacia, la nostra attività, che però è continuata altrove con ulteriori significativi esiti. Resta comunque il dato indiscutibile, riconosciuto da chi svolge una disamina serena di quegli anni che, con la cattura di Salvatore Riina, si è determinata la fine di una fase nella storia della mafia, quella più sanguinaria e spregiudicata, caratterizzata dall’avvento e dal predominio della “famiglia” corleonese. E il risultato lo si deve ai Carabinieri del Ros. Questa considerazione, unitamente alla soddisfazione di avere riportato a casa tutti i miei uomini, con l’eccezione dolorosa del maresciallo Antonino Lombardo, caduto per un’azione denigratoria non prodotta da “cosa nostra”, ma originata da modeste e improvvide polemiche di parte a sfondo politico-giornalistico, mi rende totalmente orgoglioso di quel tratto del mio percorso professionale. Alla luce e sulla base delle considerazioni sopra espresse, accolgo con rispetto le valutazioni della Corte d’Assise d’Appello di Palermo.
(2/FINE)
© Riproduzione riservata