Si sta esaurendo (o almeno attenuando) la spinta del governo Draghi? D’accordo: parlare del governo è un eufemismo, perché il motore dell’esecutivo è il premier; ma, per correttezza istituzionale e per grande rispetto verso la sua persona, fingiamo di considerare Draghi un “primus inter pares”. Si ha l’impressione che l’ex presidente della Bce si stia stancando e che a un certo punto assuma l’atteggiamento di chi lascia perdere, perché è inutile insistere. Si prenda il caso delle pensioni, per esempio: era e rimane una delle eredità del “tempo degli Unni” più difficile da accettare. Draghi è riuscito ad accompagnare la sua pittoresca maggioranza a convergere su quota 102 per il 2022, con l’aggiunta di un pacchetto di lavori disagiati in più per l’utilizzo dell’Ape sociale e per l’esodo dei “quarantunisti/ precoci”.

L’operazione non gli è riuscita con i sindacati; tanto che in occasione del primo incontro con i dirigenti confederali a un certo punto ha detto tra sé e sé: “Ma che cosa ho fatto di male per starmene qui ad ascoltare ciò che dicono?”. E se ne è andato adducendo un precedente impegno (come fanno tutte le persone normali quando non hanno interesse ad accettare un invito). Poi di fronte alla minaccia di “una mobilitazione anche fino allo sciopero generale” il presidente ha avuto una idea brillante: quella di avvalersi – come il Guido da Montefeltro dantesco – del “consiglio fraudolento”, ovvero di “promettere lungo e mantenere corto”. Così dopo che nella solennità di Bruxelles Draghi aveva affermato di non aver mai condiviso Quota 100 e che, avendo una durata triennale, non sarebbe stata rinnovata, aveva aggiunto: «Quello che occorre fare è assicurare una gradualità nel passaggio alla normalità». E che cosa avrebbe mai potuto significare questo “retour à la normale” se non il rientro sui binari della riforma Fornero? Invece no.

Il premier ha ritenuto di riconvocare i sindacati e promettere loro l’apertura di un tavolo, già da dicembre, per confrontarsi su di una riforma organica, da approvare nei primi mesi dell’anno prossimo (in proposito c’è stato un piccolo giallo perché era sembrato che Draghi avesse confidato a Pier Paolo Bombardieri la sua intenzione di restare a Palazzo Chigi). Per quanto riguarda l’impegno assunto, ci sono opinioni diverse. Quella che prevale è la seguente: il premier è riuscito a vendere all’accomandita semplice Landini & C. la Fontana di Trevi. Qualche maligno si è spinto ancora più in là, lasciando intendere che Draghi volesse mettere al riparo quota 102, per l’anno prossimo, poi sarebbero state grane di chi fosse venuto dopo di lui. Ma noi diciamo: “Honi soit qui mal y pense”. Da questo episodio (che in fondo un accomodamento lo ha trovato) il ragionamento potrebbe prendere il largo e navigare sul mare che si è aperto tra il ddl di bilancio e il Pnrr. Viene il dubbio che Marco Ruffolo, nel saggio L’angelo sterminatore. Come l’Italia ha intrappolato se stesso pubblicato l’anno scorso per i tipi di Editori Laterza, abbia anticipato un futuro purtroppo prossimo. È una storia ambientata nel 2022.

Il premier (definito soltanto “un tecnico”) convoca una conferenza stampa e dopo aver proiettato – tra lo stupore dei giornalisti- il film L’angelo sterminatore di Luis Bunuel, spiega i motivi per cui il Pnrr non ha funzionato, nonostante che da Bruxelles fosse arrivato un anticipo di 45 miliardi che non erano stati impiegati se non in minima parte. I guasti che nel libro vengono indicati come motivi della sconfitta accertata nei primi mesi dell’anno prossimo, rappresentano gli ostacoli reali che ora stanno sul cammino del Paese. Avevamo capito che vi fossero due ambiti di intervento: la legge di bilancio dedicata ai problemi contingenti a alla manutenzione ordinaria; il Pnrr con l’obiettivo delle riforme. Certo, nella legge di bilancio sarebbero state utili norme propedeutiche di collegamento con il “secondo tempo”. E in effetti questo risultato lo si è ottenuto con quanto disposto in tema di pensioni (una questione totalmente espunta dal Pnrr) che ha consentito di avviare una fase di transizione per rientrare, fino a prova contraria, in una “normalità” definita e operante, per quanto malconcia.

Ma in altri aspetti importanti le soluzioni indicate nel disegno di legge di bilancio entrano in contraddizione e potrebbero pregiudicare gli indirizzi del Pnrr. Si considerino le modifiche apportate al RdC. Sono previste, nel disegno di legge, delle correzioni importanti alle norme per l’accesso, anche se non sono state assunte per motivi – politici o finanziari – le due più significative: la riduzione a 5 anni del periodo di residenza che avrebbe favorito le famiglie degli immigrati che stanno nei gironi più bassi della povertà assoluta; una più ragionevole possibilità di cumulo tra il RdC e un reddito da lavoro. Ma l’aspetto più serio è un altro: il RdC continua a portarsi appresso – sia pure in termini ridimensionati nella tipologia delle offerte di lavoro considerate “congrue” – un ruolo nel campo delle politiche attive che non hanno mai funzionato e che non possono funzionare innanzi tutto – è un merito del comitato scientifico averlo riconosciuto – per la sostanziale inoccupabilità di coloro che percepiscono il reddito. Per farla breve: ammesso e non concesso che i Cpi siano in grado di fare loro tre proposte di lavoro, è praticamente impossibile, per tanti motivi, realizzare e verificare il buon esito dell’operazione.

Anche la riforma degli ammortizzatori sociali resta confinata in un ambito difensivo del precedente impiego più che divenire promozionale di un’occupazione nuova. A questo proposito il Pnrr (che nella “missione lavoro” stanzia 6,6 miliardi) traccia le linee di un intervento più ampio: “Potenziare le politiche attive del mercato del lavoro e la formazione professionale: sostenere l’occupabilità di lavoratori in transizione e disoccupati, mediante l’ampliamento delle misure di politica attiva del lavoro, nell’ambito del nuovo “Programma Nazionale per la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori (Gol)”, e promuovere la revisione della governance del sistema di formazione professionale in Italia, attraverso l’adozione del “Piano Nazionale Nuove Competenze”. Balza subito in evidenza che non è la stessa logica del RdC benché quest’ultimo continui a occupare la cabina di regia delle politiche attive; le stesse che Draghi nel suo discorso sulla fiducia del 17 febbraio aveva considerato “centrali”, aggiungendo che esse sarebbero divenute immediatamente operative migliorando “gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati”.

Ma il clou della nuova politica industriale Draghi l’aveva spiegata così: il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi. Invece, si temevano milioni di licenziamenti; invece sono cresciuti (a livello dell’1,8%) i posti vacanti. Come ha scritto la Confindustria nel rapporto sull’industria manifatturiera: «Per la seconda metà del 2021, le attese delle imprese manifatturiere sul fronte della domanda di lavoro appaiono in costante e significativo miglioramento, soprattutto per quanto riguarda le imprese del Nord (in particolare Nord-Est) e del Centro. Tale andamento si associa, tuttavia, all’aumento – ha lamentato – della quota di imprese che segnalano crescenti difficoltà nel reperimento della manodopera loro necessaria per il ciclo produttivo, in un contesto di aumento progressivo del grado di utilizzo degli impianti».

E i sindacati, in tale contesto, hanno deciso – in base ad alcune vertenze aperte – di dichiarare guerra alle multinazionali chiedendo di approvare norme contro le delocalizzazioni come se l’Italia (con le sue 23mila aziende che hanno investito all’estero e che vantano 1,8 milioni di dipendenti) fosse una sorta di nazione coloniale soggetta alle scorrerie della globalizzazione. Infine, il fisco. Che cosa disse Draghi lasciando tutti a bocca aperta il 17 febbraio? «Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli». Proprio come sta succedendo adesso con la riffa per la spartizione degli 8 miliardi stanziati nel disegno di legge di bilancio di cui non si comprende la coerenza con il disegno di legge delega in materia fiscale, ammesso che se ne possa intravedere una in quelle norme molto vaghe.

Quanto alla Concorrenza, nonostante i richiami della Ue a rispettare i nostri stessi impegni e le sentenze ultimative, del Consiglio di Stato, non è per nulla sicuro che sarà vinta la sfida con i concessionari dei litorali marittimi, una lobby che, disseminata su migliaia di km di spiagge, è in grado di esercitare pressioni trasversali tra i parlamentari. Concludiamo con gli investimenti pubblici. Draghi ebbe a dire che «in tema di infrastrutture occorre investire sulla preparazione tecnica, legale ed economica dei funzionari pubblici per permettere alle amministrazioni di poter pianificare, progettare e accelerare gli investimenti con certezza dei tempi, dei costi e in piena compatibilità con gli indirizzi di sostenibilità e crescita indicati nel Programma nazionale di Ripresa e Resilienza». Ma nonostante gli sforzi di Renato Brunetta nel migliorare, con le iniezioni di nuove assunzioni, la performance progettuale delle Regioni e degli Eell, la tartaruga non sembra in grado di correre con gli stessi tempi che Achille (il Pnrr) vorrebbe da lei. Guai però a fasciarsi la testa prima di averla rotta. In fondo la dottrina Draghi è ancora attuale: “ascolto tutti poi decido io”. Basta non perdere il ritmo.