Difficile la vita al tempo dei social. Siamo inondati di tweet che si scandalizzano perché Draghi ha parlato con i leader politici, o, in alternativa, che esultano perché si è dimostrato che anche Draghi deve fare il suo omaggio alla politica. Già, la politica. Da un lato detestata, insultata, demonizzata, e dall’altro esaltata come quella dimensione superiore che non è alla portata dei cosiddetti tecnici. Quella dimensione che ora, con l’elezione del nuovo capo dello stato, avrebbe l’occasione di riprendere il suo spazio sin qui costretto e mortificato. Ma qualcosa non va in questo quadretto. Draghi è un tecnico? Era un tecnico quando ha salvato l’euro (e, di passaggio, l’Italia) con una mossa audace e repentina? È un tecnico quando prepara con Macron la revisione del patto di stabilità? Non scherziamo.

In realtà, nella stanca contrapposizione tra politica e competenze si nascondono due equivoci. Il primo è che i politici possano essere incompetenti. Certo, questo era il principio dei 5stelle, ma proprio la loro parabola dimostra che per fare politica, e soprattutto per governare un paese, i politici devono avere delle competenze. Non tutte, certamente; e se sono in gamba, sapranno circondarsi di quelle competenze che a loro mancano. Se qualcuno se lo ricorda, era ciò che facevano i vecchi partiti: avevano esponenti colti e preparati, ma avevano anche centri studi dove radunavano gli studiosi interessati alla difficile arte del governo. Del resto, anche la politica, a un certo livello, ha una sua tecnicalità specifica, come non manca di sottolineare Renzi. Ma allora che senso ha questa specie di ubriacatura da ritorno della politica? È tutta scena, fidatevi. Si dice politica, ma si intende i partiti. E per la precisione, non i partiti come concetto, ma questi partiti, con le loro correnti, le loro pretese, i loro legittimi ma non sempre misurati interessi.

Sono questi partiti, la loro incapacità o impossibilità di gestire una legislatura confusa nella quale si sono visti dei ribaltamenti di alleanze del tutto impensabili, che sono stati commissariati da Mattarella con l’incarico a Draghi, non la politica in quanto tale. Del resto, il commissariamento è ovviamente una metafora: nessuno ha sospeso la democrazia parlamentare, il governo Draghi è stato votato da Camera e Senato e ci sono stati innumerevoli voti di fiducia nei quali, se qualcuno avesse voluto riprendersi la politica, avrebbe potuto mandarlo a casa. In altre parole, tecnico nel contesto attuale non significa non politico, ma significa che non è espressione di un partito. Infatti qualcuno si è lamentato che non si sappia per chi vota il presidente del consiglio. È un bene, è un male? Direi che è del tutto ininfluente.

Veniamo allora all’altro equivoco, quello di chi denuncia il carattere oscuro dell’elezione presidenziale, vista come una questione di manovre sottobanco e di scambi di posti (o di poltrone, come si dice con una parola che dovrebbe essere abolita dal vocabolario politico). La nostra Costituzione, che si vorrebbe la più bella del mondo, ha disegnato un sistema istituzionale fondato sui partiti, che erano usciti forti e autorevoli dalla guerra, con i loro diversi percorsi antifascisti. Ha disegnato una repubblica dei partiti, secondo lo storico Pietro Scoppola. Oggi viviamo una crisi dei partiti che è iniziata trent’anni fa e non si è ancora conclusa. È in questo quadro di crisi che il ruolo dei presidenti della repubblica si è esteso e allargato, senza tuttavia uscire dall’ambito definito dalla Costituzione. Per questo l’elezione è diventata così faticosa: perché il ruolo è molto più importante di quanto fosse in passato. Per questo, anche, è diventato difficile accettare i modi da gioco di poker, il dire e non dire, le candidature coperte e quelle esposte per bruciarle. Forse almeno questo aspetto si potrebbe in futuro cambiare, e introdurre le candidature esplicitate per tempo, come avviene per esempio in Germania.

Ma per restare all’oggi, a parte la difficoltà oggettiva di stringere un accordo che tenga insieme il Quirinale e il governo, non si può non pensare che questi partiti deboli e frammentati, spesso in cerca d’autore e di identità, resistano a mettere in quel ruolo, per sette lunghissimi anni, un uomo che, lungi dall’essere un tecnico, ha mostrato di essere un politico abile e decisionista. A rischio, se si fanno giochi strani, di fare saltare anche il governo, perché se c’è un punto che Draghi ha messo in chiaro nella famosa conferenza stampa del 22 dicembre, è stato proprio questo: che il governo non può proseguire se l’elezione del presidente avviene rompendo la maggioranza che lo sostiene. Il cosiddetto ritorno della politica, tanto invocato, potrebbe così concludersi in una sonora sconfitta dell’Italia, della quale solo il segretario del Pd sembra per ora preoccuparsi, quale sarebbe perdere, in una postazione o nell’altra, il contributo di Draghi alla ricostruzione del paese.