C’è stato un settore non toccato dalla crisi scatenata dalla pandemia: la spesa militare. A livello globale, nel 2021 questa spesa ha raggiunto la cifra record di 2113 miliardi di dollari, cifra mai toccata prima. E se in termini relativi in alcune nazioni sembra invece registrarsi una diminuzione, è soltanto perché c’è stata una ripresa economica e quindi, aumentando il prodotto nazionale lordo, la quota destinata alla spesa militare è diminuita in termini percentuali.

Naturalmente la giustificazione è sempre la stessa: noi non dobbiamo attaccare, ci armiamo per difenderci. La vecchia strategia del si vis pacem para bellum che ancora, dopo un millennio e mezzo, non riusciamo a superare. A cui ancora non abbiamo potuto o voluto trovare alternative, nonostante si sia dimostrata foriera – quando non causa – solo di guerre, e non di pace. Non è stato difficile arrivare a 2,113 miliardi di dollari: per sette anni consecutivi la spesa militare è aumentata, ovunque. Ne dà conto, con un report pubblicato martedì 26, il Sipri, Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, creato nel 1966 (in concomitanza con la celebrazione di 150 anni di pace in Svezia) con il compito di informare in modo imparziale su tutto quanto riguardi gli armamenti – produzione, commercio, controllo, disarmo –, i conflitti e la loro prevenzione.

Con un aumento del 2,9 per cento, la spesa militare della Russia ha raggiunto l’anno scorso il 4,1 per cento del Pil (ovvio mettere in rapporto questo dato con il rafforzamento delle forze militari ai confini dell’Ucraina). Commenta Lucie Béraud-Sudreau, che dirige il programma Sipri: «Sono stati gli elevati ricavi da petrolio e gas ad aiutare la Russia ad aumentare questa spesa nel 2021». La cifra di cui stiamo parlando era stata rivista al rialzo rispetto a quella prevista nel bilancio di fine 2020: un rialzo del 14 per cento. C’è chi si è mostrato ancora più attivo, e ha aumentato le spese militari non negli ultimi sette anni, ma negli ultimi ventisette: si tratta della Cina (e soltanto l’anno scorso ha registrato un 4,7 per cento in più sull’anno precedente).

La corsa agli armamenti della Cina nonché il suo crescente interesse per i mari del Sud avrebbero avuto come conseguenza, secondo gli osservatori, l’incremento della spesa militare dell’Australia e del Giappone, in chiave difensiva. Più 4 per cento per l’Australia, più 7,3 per cento per il Giappone. Anche la Nigeria ha aumentato le spese militari per ragioni di sicurezza: l’estremismo terroristico, le spinte separatiste. Registra così un impressionante 56 per cento in più (e parliamo del Paese considerato il più povero del mondo, con il 33 per cento di abitanti, ovvero 70 milioni, in condizioni di assoluta indigenza). L’India ha cercato di far diventare la spesa militare benefica per la sua industria: il 64 per cento delle spese è stato destinato a comprare armi di produzione nazionale. Aumenti percentuali: più 0,9 nel 2021 rispetto all’anno precedente, e più 33 per cento rispetto al 2012.

Un caso a parte sembra quello degli Stati Uniti, dove si registra un calo dell’1,4 per cento. Ma questo dato va letto in parallelo all’aumento dei finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo militare: un bel 24% tra il 2012 e il 2021. Cioè: perché continuare a investire in armi di vecchia generazione quando se ne possono sviluppare di nuove, più efficaci? Come ha ricordato Alexandra Marksteiner, ricercatrice del Sipri, il governo degli Stati Uniti ha ripetutamente sottolineato «la necessità di preservare il vantaggio tecnologico dell’esercito statunitense rispetto ai concorrenti strategici».