La lunga scia di fatti violenti delle ultime settimane merita un’attenzione che deve andare oltre la cronaca, perché ciò che accade nell’intera area metropolitana di Napoli non ha analoghi riscontri in altri luoghi del Paese. E nemmeno in metropoli europee. Occorre guardare a città latinoamericane per trovare similitudini. Milano, Torino, Genova, Roma, Londra, Parigi soffrono anch’esse della violenza di minori, di baby-gang (specie etniche), di scontri fra giovani, perfino di gruppi di ragazzine (come le cronache raccontano). Dov’è allora la differenza?

Possiamo imputare la lunga scia di violenza ai postumi della pandemia? No, perché anche le altre città l’hanno vissuta. Tra l’altro, una cosa sono i disturbi psicologici (specie depressione) che si registrano tra gli adolescenti e i giovani connessi all’isolamento, al senso di incertezza e all’angoscia dei genitori (il cui impatto sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti è indiscutibile), altro sono le diverse forme di violenza emergenti. E allora? Possiamo ipotizzare che si stia alimentando un circuito vizioso originato da una percezione alta di insicurezza basata sulla diffidenza che spinge minori e giovani ad armarsi per difendersi, senza che siano considerate le conseguenze dell’avere addosso una qualsiasi arma? Può darsi.

Si accrescerebbe, allora, il numero degli episodi perché in realtà per aggirare la barriera emotiva della paura, al più piccolo pretesto si ricorre all’arma. Possibile, ma non ne siamo sicuri. Infatti, proprio l’atto violento dell’altro giorno (il ricorso all’acido, con il rischio di emulazioni) non solo confuta l’ipotesi ma rende conto di come lo scenario di vendetta intrafamiliare. s’inscrive in una miscela diventata componente strutturale del nostro contesto e che conferma la persistenza del suo volto arcaico cioè degrado del quartiere (Sanità), squallore della promiscuità, assenza di ogni basico principio etico che consideri la dignità dell’altro, uso della violenza come risoluzione per ogni disputa. A questi ingredienti si è aggiunto (peggiorando gli effetti) il moderno uso dei social utilizzati come agorà d’odio virtuale per montare una violenza mediante “sciami di messaggi” offensivi che lievitano, amplificano e distorcono l’uso della rete. Atto prodromico dell’odio reale. E allora che fare?

Proviamo a distinguere i fatti. Innanzitutto, una cosa sono le sequenze di episodi connessi all’ordine pubblico (esempi la movida; i social drinker; le intense aggregazioni attorno a discoteche, locali, ecc.). Entro tali aggregazioni spontanee la densità produce inevitabilmente caos e questo è un potenziale terreno per manifestazioni di aggressività. Queste modalità richiedono che gli avvenimenti siano trattati nell’agenda strategica dell’ordine pubblico. Altra cosa sono i fatti che hanno un contenuto criminale, ovvero quando la violenza è espressione di un uso o specializzato (ma questo è tipico delle mafie, tra cui la camorra), o è una risorsa che è entrata nel repertorio del quotidiano come mezzo per dirimere ogni disputa. In questo caso occorre capire e spiegare le connessioni.

Il fatto che molti minori e giovani nell’hinterland e in città facciano ricorso a qualsiasi arma e che essa sia tenuta addosso come ingrediente della simbolica dominanza virile è legata a due fatti indiscutibili: l’estesa presenza di mercati illegali le cui attività sono intrinsecamente violente e quindi disseminano l’idea del ricorso legittimo alla forza (l’attività estorsiva nasce da noi!); l’ampia e diffusa povertà culturale connessa allo spaventoso esercito di ragazzi e ragazze che evadono la scuola. La dispersione scolastica non è solo impoverimento del capitale umano è anche assenza di disciplinamento, di opacizzazione dell’autorità (già in famiglia ormai debole o non praticata). Se osserviamo il mercato delle armi illegali i dati che ci rigettano solo i carabinieri sono impressionanti: sequestrate solo negli ultimi cinque mesi 365 armi! Pugnali, katane, mazze da baseball, pistole artigianali, tirapugni di acciaio, coltelli ecc.

Un corollario di strumenti a disposizione sia di gruppi di camorra che di facile accesso per chi vuole utilizzarle. Il contrasto a questo segmento del mercato illegale deve essere continuo. Non si deve dare adito all’idea che la città sia sguarnita, che lo Stato sia debole. Ma non basta. Occorre costruire un’agenda istituzionale che operi in sinergia con il mondo della ricerca, delle forze dell’ordine e della magistratura impostando il lavoro con soluzioni su tempi brevi, medi e lunghi. Va bene l’aumento della videosorveglianza, di maggiori controlli del territorio (magari utilizzando modelli più efficaci), ma occorre immediatamente interfacciare i dati della popolazione scolastica attiva e colpire le sacche di dispersione scolastica. I dirigenti scolastici non denunciano perché hanno paura. Vengono intimiditi dalle famiglie e dai parenti.

Occorre rendere le segnalazioni anonime, ancorare il reddito di cittadinanza al circolo virtuoso della scuola. Possibile che nell’era dell’intelligenza artificiale non sia possibile avere dati dall’Ufficio scolastico regionale? Che non si possa mettere in piedi una banca dati che s’interfacci con gli uffici comunali di servizio sociale e le forze dell’ordine? Qualsiasi visione sul futuro della città non può prescindere dallo sradicamento di queste criticità. Rendiamo le diverse organizzazioni e istituzioni (scuole, palestre, parrocchie, associazioni ecc.) sentinelle della sicurezza ancorché della legalità. Non possiamo oramai più tollerare che il degrado, lo squallore della promiscuità, l’assenza di ogni basico principio etico che consideri l’altro faccia della violenza la “risorsa” che miscela, che risolve…

Giacomo Di Gennaro, Maria Luisa Iavarone

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