Le “grandi manovre d’Oriente” (e anche l’invito a Mosca per il G20 in Indonesia) smontano pezzi importanti del dispositivo ideologico di una guerra ineluttabile tra democrazia e autocrazia che viene attualmente utilizzato come il principale schema interpretativo delle relazioni internazionali. Insieme alle autocrazie di Russia, Bielorussia, Tagikistan e Cina ha partecipato infatti alle esercitazioni militari congiunte anche l’India. Ovvero, la più grande democrazia mondiale che vanta una storia di “modernizzazione” in cui molto pronunciata è l’influenza occidentale.

L’Europa e l’America trascurano quel fenomeno politico rilevante rappresentato dalle molteplici esperienze di statualità che nel mondo seguono percorsi alternativi rispetto a quelli liberaldemocratici tracciati dall’Occidente. Con una impostazione dei rapporti internazionali nei termini di un generale scontro di civiltà tra mondo libero e Stati canaglia, le sorti dei valori democratici e l’avanzata della cultura dei diritti fondamentali non migliorano di sicuro. Miliardi di persone, che non vivono sotto l’ombrello delle liberaldemocrazie, non possono essere sacrificati sull’altare del loro regime politico interno assunto quale misura dell’asimmetrica legittimazione posseduta dagli Stati nelle relazioni internazionali.

Enumerando gli “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”, Gramsci nei Quaderni (Q. 4, (XVIII), p. 38 bis) ne elencava tre: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere quantitativo egli aggiungeva, come quarto indice da considerare, anche “un elemento imponderabile”, cioè quello che rimarca “la posizione ideologica che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia”. Il possesso di tutti questi ingredienti conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”) dato che, oltre alla forza effettuale (che mostra la vittoria prevedibile sulla base del dispiegamento delle milizie), dispensa allo Stato una forza ipotetica capace di condizionamento. In virtù di questa calcolabilità delle prerogative militari, economiche ed ideologiche, alla grande potenza riesce possibile “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.

Le relazioni internazionali esprimono, secondo l’approccio di Gramsci, un terreno di rapporti interstatali dal carattere asimmetrico perché in essi gioca, accanto alla stretta effettualità della potenza, un ruolo cruciale il momento dell’egemonia. “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.
Non conta, dunque, solo la giuridica prerogativa di un territorio di essere un soggetto formalmente presente nelle arene delle relazioni internazionali. Va presa in considerazione anche la sostanziale possibilità di esprimere una posizione incisiva ed esercitare una visibile influenza nelle cose del mondo. Questi requisiti connessi alla capacità di influenza e direzione accompagnano solo poche delle entità statali. Una “direzione autonoma” non si esaurisce nel riconoscimento giuridico di essere parte degli attori che sono ospitati negli organismi delle Nazioni Unite; serve una effettuale condizione che mostri, nelle relazioni con gli altri, i segni dell’autonomia ovvero della forza.

Accanto a Stati che dispongono di significative risorse per esercitare un “influsso” e avere una certa “ripercussione” nei processi politici, esistono delle statualità con una rilevanza pari allo zero. Si incontrano poi altre e più grandi entità politiche organizzate dotate di una forza tale che consente loro di rivendicare il ruolo di potenza egemone. Questi Paesi sono in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di una alleanza di nazioni che si contendono, con altre aggregazioni, il governo del mondo. Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti hanno coltivato la sensazione reale di essere entrati in un mondo divenuto ormai unipolare. Sulla base della supremazia, spalancata plasticamente con il collasso storico del nemico della lunga guerra fredda, il punto 4 di Gramsci, quello cioè relativo alla ideologia, è diventato il caposaldo di una operazione condotta nel solco della “fine della storia”, con le potenze del bene, dei diritti, della democrazia, autorizzate a celebrare il loro trionfo irreversibile.

Questa pax imperiale americana è durata poco perché tutte le potenze escluse, umiliate, marginali, o anche in ascesa, si sono variamente riaffacciate sulla scena. Perso il richiamo del numero 4 (la mobilitazione ideologica) che accompagnò il grande mito sovietico, alla riesumazione della potenza nazionalista e bellicosa dell’autocrazia russa contribuiscono il punto 1 (estensione territoriale, con risorse naturali di notevole rilevanza) e il punto 3 (la forza militare, con il possesso di armi atomiche). Anche se il punto 2 (la consistenza del “potenziale economico”) non è paragonabile a quello vantato dalla superiore macchina americana, il territorio pieno di risorse energetiche attribuisce alla Russia un potere di ricatto capace di indebolire la capacità produttiva delle potenze industriali occidentali.

Trascurare la rinascita russa e, addirittura, “abbaiare” con i simboli della Nato ai confini, adottando una strategia di puro contenimento militare con allargamenti ai limiti della intransigenza nei vecchi territori di influenza sovietica, non sono le sole politiche possibili verso Mosca. Il risentimento e l’esplosione dell’orgoglio nazionale dell’impero ferito (che ha un’ampia estensione territoriale, ma senza “una popolazione adeguata, naturalmente” per condurre davvero una minacciosa politica di espansione e conquista continentale) conducono a fenomeni bellici prolungati che rendono più complesso, e meno vantaggioso per l’America stessa ma soprattutto per i satelliti europei, il governo del mondo attraversato da nuove polarizzazioni militari.

Secondo Gramsci, “nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”. Nel caso specifico russo, si tratta di una territorialità di carattere pluri-continentale che mostra il governo di Mosca sospingere i propri progetti ora verso Occidente, ora verso Oriente. Mentre Pechino venne attratta in passato dagli Usa in efficaci politiche di contenimento dell’espansionismo sovietico, oggi la Cina è sospinta per ragioni tattiche verso Mosca che organizza i molteplici centri di resistenza al dominio americano. Un capolavoro con tracce di insipienza tattico-storica degli strateghi Usa ha condotto, come naturale reazione precauzionale-difensiva, verso un’alleanza tra due grandi Paesi (storicamente rivali) che accantonano differenze e convergono in una comune istanza di contenimento dell’Impero a stelle e strisce.

La Cina è la sola grande potenza che può già oggi cominciare a competere con gli Usa sulle quattro variabili indicate da Gramsci (anche nella dimensione militare e navale, infatti, sembra ormai aver imboccato la strada per colmare il divario) e ciò giustifica la crescente accentuazione del sentimento di rivalità che caratterizza l’America ossessionata dal pericolo di un sorpasso. E’ vero che il profilo ideologico non è più quello di sessant’anni fa, ma una narrazione e un simbolismo caratterizzati dal richiamo al marxismo (espressione della cultura occidentale) rimangono pur sempre nella iconografia del regime di Pechino. Se, come suggerisce Gramsci, “nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria”, si comprende in radice il timore serpeggiante nel governo americano.

Il potere statunitense percepisce che la globalizzazione, proprio da Clinton accelerata, ha minato la tradizionale egemonia nordamericana nell’economia-mondo e ha corroso persino la sovranità del dollaro e della borsa (anche sul versante finanziario Pechino sfida apertamente gli Usa con minacce e ritirate). Dinanzi alle “grandi manovre d’Oriente”, l’America può continuare nella battaglia frontale attirando a rimorchio un’Europa che grazie alla sua memoria storico-giuridica serve all’Impero per condurre in maniera più credibile la battaglia n. 4 (per la democrazia e i diritti). Ma alla sfida per il riconoscimento lanciata da Russia, Cina, India e Iran, Stati assai influenti e provvisti di una autonoma capacità di decisione nel campo della politica estera, l’Occidente non può rispondere spingendo semplicemente sulla leva militare.

Un accomodamento politico creativo alla spinosa emergenza di Taiwan va pure escogitata, e con tempestività. La cooperazione, il multilateralismo, la soluzione diplomatica agli obiettivi di potenza alla fine rappresentano una opzione meno costosa, più pacifica e più utile agli stessi interessi occidentali in declino e chiamati necessariamente a ridefinirsi su basi diverse, alla luce dei nuovi equilibri visibili su scala mondiale.