In effetti, la suggestione delle pure immagini è così evocativa da sollecitare una scelta tra il realismo inattuale di Kissinger e le trovate dei “sette cowboys” che, per un accanimento del destino, devono gestire i tempi poco banali del tramonto dell’Occidente. Si era appena sgonfiata la retorica sul carattere storico del viaggio che su un treno blindato aveva condotto la “troika di guerra” a Kiev per ottenere l’adesione accelerata all’Unione europea di un Paese in armi, e quindi con la legge marziale in vigore, che l’enfasi sul tratto memorabile delle gesta dei capi di governo raggiungeva nuovi teatri. Prima la montagna incantata tedesca, con i sette scamiciati che esibivano il volto spensierato del potere dei grandi della Terra, alle prese con un’allarmante congiuntura di guerra pronta ad allargarsi, subito dopo il raduno spagnolo con decisioni, queste forse sì storiche, per irrobustire il corpo armato della politica.

Le camicie bianche dei sette capi senza cravatta, che divagano sugli inviti da remoto o in presenza al G20, e le parole pronunciate a Madrid sulle prospettive strategiche della Nato hanno sorretto un’ambizione di strenua conservazione del lontano ricordo di un assetto unipolare delle relazioni internazionali. Nella sua vena nostalgica, la volontà di armare un impero del bene per presidiare l’ordine liberale pare destinata ad acuire le tensioni. La lettura del mondo come un inospitale inferno, dominato dalle immagini del nemico attuale (la Russia) e dallo spettro di un nemico incombente (la Cina), di fatto comporta il rinculo delle aperture dei tempi della globalizzazione.
Le potenze del libero mercato sono spaventate dalla circolazione delle merci e dei profitti, che nelle condizioni oggi date favorisce l’economia più dinamica del celeste impero, capace di esercitare anche un soft power finanziario. Per questo i rappresentanti dell’Occidente chiedono di sostituire ai principi dell’autonomia commerciale gli istituti e le discipline eteronome nel segno dell’economia di guerra. Si rovescia così l’ordine delle cose: con i meccanismi neo-protezionisti il “capitalismo di concessione” diventa quello americano, mentre il “capitalismo di mercato” ha gli occhi a mandorla del colosso cinese.

La dottrina Biden, sposata ed estremizzata anche dai delegati di un’Europa apparsa invertebrata anche al raduno di Madrid, postula orizzonti di guerra, calda e fredda, che si espandono in un quadro di inimicizia strutturale tra le aree del mondo. La Nato, contro le sobrie indicazioni di Kissinger, intende scacciare la Russia dal sistema economico, politico e culturale europeo, e affidare soprattutto alle armi la risoluzione delle ossessioni moscovite sui confini incerti di un impero decaduto. Ciò comporta una contrazione del ruolo autonomo dell’Europa, che diventa uno spazio vulnerabile, destinato a convivere a tempo indeterminato col ronzio delle armi. Sposare, come anche Draghi ha fatto, la dottrina della guerra etica contro la Russia, che va colpita militarmente anzitutto perché destabilizza l’Occidente liberale, induce a rinunciare a qualsiasi lettura politicamente più articolata del conflitto. Una guerra di terra per la sicurezza dei confini, per un disegno geopolitico di controllo degli spazi, per la conquista dell’accesso al mare, o per il riconoscimento della sovranità marittima nella regione artica, che nasconde immensi giacimenti di gas e petrolio, è comunque mediabile. Basta solo perseguire gli interessi realisti (incluso quello di evitare guerre costose e sanzioni economiche autodistruttive). Una guerra ideologica, per la difesa dei principi del liberalismo politico, comporta invece una pratica di inimicizia permanente che sfugge al calcolo delle convenienze.

Il fatto che la narrazione sull’urto di civiltà, con il duello inevitabile tra autocrazie e democrazie, non scaldi molto il cuore dei Paesi del Sud del mondo dovrebbe suggerire delle celeri correzioni. Alla rivendicazione di Cina, Russia e degli altri Paesi del Brics di ripensare gli equilibri del mondo, alla luce dell’emersione di nuove potenze regionali e dell’usura della capacità di polizia dell’ultimo impero (la stagione di Obama e il successivo disimpegno americano dall’Afghanistan sono evocativi), non si può rispondere solo con l’arroccamento. Un bilancio di Michael Mann (The Sources of Social Power, Cambridge, 2013, Vol. 4, p. 420) sugli Usa come l’ultimo degli imperi consente di cogliere le linee evolutive che, dopo la Seconda guerra mondiale, portano dall’egemonia ai segni di stanchezza. “All’inizio l’impero era altamente militarista in Asia orientale, ma poi si è sviluppato anche in termini di egemonia. Mentre gli Stati Uniti hanno generalmente considerato l’Africa come area di scarso interesse strategico o economico, in America Latina e in Medio Oriente hanno dispiegato ad intermittenza la loro forza militare, palese e occulta. In Medio Oriente gli interventi americani si sono intensificati in un modo disastroso nel nuovo millennio. Molti ritengono che questo sia il risultato del declino americano, ma negli ultimi decenni l’Impero americano sembra aver intrapreso un percorso di declino per autoinduzione. In politica estera si è imbarcato in delle guerre inutili e comunque non vincenti e ha appoggiato in modo ossessivo Israele, non facendo altro che moltiplicare i nemici”.

Il fallimento delle sanzioni e lo scetticismo esplicito dei Paesi più popolosi del mondo mostrano un libero Occidente più isolato sul terreno della egemonia, confermando anche un “declino relativo americano” nell’esercizio del dominio globale. Nei fatti il dominio, capace di imporsi con la forza alle derive del multipolarismo, non è proponibile con sufficiente realismo. Anche se la superiorità nelle tecnologie di sterminio resta invidiabile, l’unilateralismo americano è diventato impossibile come efficace forma del governo mondiale. L’impossibilità di garantire con la polizia americana l’ordine nel sistema politico internazionale induce a fare i conti con la crescita economica e politica della Cina, con il suo riarmo navale e le rivendicazioni nazionaliste, con il risveglio geopolitico della Russia, con l’emersione di potenze regionali. Le forze reali annunciano un mondo in disordine, con potenze asimmetriche che cercano nuovi equilibri, diversi bilanciamenti delle influenze, una ridistribuzione del potere tra i principali attori del sistema internazionale.

L’Europa ha nostalgia di un mondo a governo imperiale imperfetto, che però è ormai perduto ed ineffettuale nella prova muscolare. Rinuncia per questo ad iniziative politiche incisive per condividere gli spazi di un nuovo ordine, affidando al mito di un legame transatlantico, rinfrescato dall’allargamento della Nato, le promesse del mantenimento di un governo sostanzialmente unipolare del sistema politico internazionale. L’ordine oggi realisticamente perseguibile non può però essere quello liberale, con la condivisione di valori non contrattabili, deve scaturire per forza di cose dalla cogestione di più spazi e molteplici centri di influenza. Il multilateralismo, con il ruolo negoziale di potenze ispirate ai diversi principi organizzativi della statualità, non è un valore astratto, ma è un fatto da assumere storicamente come ineludibile, se non si intende precipitare dall’impossibile egemonia militare dell’Occidente imperiale all’entropia di un mondo insicuro e aggressivo.

L’iniziativa inglese e polacca, a rimorchio degli Usa nella gestione della crisi ucraina, ha spezzato ogni traccia dell’asse Parigi-Berlino-Mosca. Anche la retorica italiana della guerra per la difesa dell’ordine liberale ha contribuito a mostrare le crepe della vecchia Europa, divisa sulle prospettive e composita nella visione dei processi. La scommessa dei “sette cowboys” in una rinascita miracolosa del dominio americano, dopo i segni di arretramento e disimpegno nel Medio Oriente, confida nella pericolosa nostalgia di un sistema di dominanza unipolare capace di supremazia. Il realismo di Kissinger ha molto da insegnare lungo la strada della ricostruzione di un ordine condiviso da una molteplicità di attori, alcuni dei quali nient’affatto liberali.