Sui fatti di Piacenza si sono spese molte parole in questi giorni. Il caso è grave e suscita per forza allarme e indignazione. Si è molto discusso dei limiti della catena di comando che, dentro l’Arma, avrebbe dovuto vigilare e sorvegliare i comportamenti dei militari della Stazione Levante. Certo, si è detto, in fondo è solo una delle 4.700 caserme dislocate in tutta Italia, ma è anche l’unica a essere posta sotto sequestro dalla magistratura. Il sequestro non è cosa meno grave degli arresti di tanti carabinieri e nell’immaginario almanacco dei brutti ricordi di piazza Ungheria questa misura avrà un posto a parte. Tanto brucia la ferita che l’Arma ha piazzato una stazione mobile davanti l’ingresso della Levante che appare in tutti i filmati, quasi a stizzosa replica della propria presenza in quel quartiere. Le manette non sono, purtroppo, un precedente nei ranghi della Benemerita, ma il sequestro di una caserma, ossia di un plesso di polizia e al contempo di un presidio militare (l’Arma è dal 2000 la quarta forza armata della Difesa), è da annotare con la penna rossa e blu per il vertice dell’Arma.
Tra le tante cose che si sono dette in questi giorni c’è anche l’idea che i carabinieri della Levante si siano dati un gran daffare per portare a segno dozzine e dozzine di arresti, sequestrare droga, acquisire informatori, e così conquistare benemerenze ed encomi. Qualche ufficiale, si dice, a dispetto di ogni prudenza e cautela, avrebbe persino incitato i propri uomini alle manette facili per avere anche lui un qualche ritorno nella propria carriera. Su questo, a occhio e croce, tutti sembrano d’accordo, anche quanti hanno gridato al linciaggio sui carabinieri e hanno invitato a moderazione. Se non fosse. Se non fosse per un sottile e insidioso dubbio che traversa la mente e merita una risposta. C’è legittimamente da chiedersi se della cifra anomala di tutti questi arresti e di tutti questi sequestri la Procura della Repubblica di Piacenza si fosse mai accorta. Se, negli anni, la magistratura inquirente si fosse mai insospettita per l’insolita (in una piccola città) frenetica attività investigativa di una minuscola stazione a detrimento dei reparti dell’Arma delegati a questo genere d’indagini. Si badi bene: non si parla del valoroso procuratore, giunto in città da pochissimo tempo e che sta gestendo la vicenda con grande professionalità; e neppure di questa o di quella toga. Sia chiaro. La corporazione è suscettibile ed è bene non irritarla.
C’è piuttosto da chiedersi se di questo via vai di manette si fosse reso conto l’anonimo e impersonale ufficio del pubblico ministero; quello cui la polizia giudiziaria presenta ogni giorno la lista degli arrestati e dei fermati per ottenere la convalida del provvedimento di polizia; il pubblico ministero che la polizia giudiziaria chiama anche di notte per avere istruzioni su come procedere nella flagranza di un reato; il pubblico ministero cui compete disporre la liberazione immediata dell’arrestato se ritiene che non sussistano elementi che ne giustifichino la restrizione personale; il pubblico ministero che deve vigilare sull’operato della polizia giudiziaria e verificare che non vengano commessi arresti illegali (che sono un reato grave); il pubblico ministero che (come nel caso Cucchi) dovrebbe accorgersi se una persona in manette è stata malmenata o, peggio ancora, torturata; il pubblico ministero cui avrebbero dovuto rivolgersi fiduciose le vittime di tanti soprusi a Piacenza e non lo hanno fatto. Ecco, in tutto questo mattatoio processuale e non solo, in questa pubblicizzata Gomorra a parti invertite, c’è da chiedersi perché l’indagine sia stata avviata, come pare, praticamente solo per le dichiarazioni rese da un altro carabiniere.
Tenere totalmente all’oscuro l’Arma piacentina delle indagini in corso è stata certamente una scelta dolorosa e difficile. La decapitazione dei vertici dei carabinieri in città è, anche, la risposta a questa vistosa mancanza di fiducia e un prezzo duro per un’istituzione che serve la Nazione da oltre due secoli. Però esiste un’altra, non meno potente ed efficiente, catena di comando ed è quella che vede al suo vertice il pubblico ministero che, nel codice di procedura penale, esercita funzioni e compiti di vigilanza ben più cogenti e penetranti di quelli di un ufficiale dell’Arma. Ecco, ed è solo una domanda, che sarebbe indispensabile che si faccia chiarezza anche sull’altra metà della luna, su quella zona rimasta in ombra solo perché è ora intervenuta con la dovuta asprezza e severità dinanzi a una situazione difficile e grave come quella della Levante. Tuttavia, sarà facile per gli indagati sostenere che tutti gli arresti sono stati convalidati, che il pubblico ministero non mai hai eccepito o sollevato dubbi di sorta, che tutto il loro operato – passato al setaccio decisivo e insostituibile dell’autorità giudiziaria – è risultato esente da censure.
Uno screening sugli arresti o sui fermi operati da quei carabinieri sarebbe indispensabile anche solo per comprendere (come nel caso Cucchi) dove la catena di controllo s’è spezzata, dove i doveri di vigilanza sono rimasti sopiti, e non solo in caserma. Il pubblico ministero esercita un ruolo decisivo, come noto, a presidio della libertà e dell’incolumità delle persone in vincoli poiché ha tutti gli strumenti per prevenire, contenere e reprimere gli abusi. Non accadrà nulla, ovviamente, ed è probabile che nessuna verifica verrà mai svolta, ma questo non sarebbe altro che l’ennesimo argomento a favore di chi sostiene che il pubblico ministero si stia riducendo da tempo al ruolo di nudo avvocato della polizia e che, per questo, non debba più condividere con i giudici l’appartenenza a un medesimo ordine di giustizia e di terzietà.
Un giorno tanti anni or sono un giovane giudice, in sede di convalida dell’arresto, notò un’ecchimosi sull’occhio del detenuto che interrogava e solo con tante insistenze e rassicurazioni riuscì a farsi dire che non era né caduto né inciampato, ma che aveva beccato una raffica di pugni dai poliziotti che lo avevano ammanettato. Quel giudice avvisò l’ancor più giovane pubblico ministero che, incurante dei più o meno bonari consigli del suo procuratore che lo invitava alla prudenza e paventava orribili calunnie, fece processare gli aguzzini. Non ci fu bisogno di alcun pentito in divisa.
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