Dopo oltre due mesi di morti e devastazioni. Dopo settimane di sangue e di una pace che nessuno vuole e per la quale nessuno si spende davvero, la riflessione dovrebbe forse abbandonare gli scenari globali, le mappe militari, i filmati dei droni e assumere una dimensione interiore, forse intima. Questo dovrebbe valere per gli uomini e per le nazioni che in bilico verso un ignoto del tutto imprevedibile e, forse, addirittura apocalittico, dovrebbero fermarsi per comprendere bene dove la guerra si sia collocata nel Terzo millennio tra il complesso dei valori e degli interessi che tengono insieme e salda una collettività.

Le Carte costituzionali servirebbero a questo, a cristallizzare in modo stabile e duraturo il nucleo duro dei principi che cementano una società e ne fanno una nazione. La nostra contiene parole chiare sul ripudio della guerra, ma è del tutto evidente che non basta. Studiosi dell’uno (pacifista) e dell’altro (belligerante) campo si sono affrontati e si contendono aspramente la migliore interpretazione della Costituzione e questo basta per rendere ogni posizione precaria, ogni punto di vista accettabile; in un relativismo non solo ermeneutico, ma in certa misura anche etico. L’Italia ripudia la guerra era la regola chiara cui è stato aggiunto un codicillo: almeno che la guerra non possa giustificarsi in nome di altri ideali, di altre opzioni, di altri interessi.

Spezzoni decisivi della classe dirigente di questo paese e, con essi, la maggioranza dei mezzi di informazione ha dato credito e sostegno a questo approccio combinatorio e già questo, da solo, lascia intravedere quanto la globalizzazione, le alleanze militari, le unioni politiche, il consumismo edonistico degli ultimi decenni abbiano profondamente incrinato la moral suasion che promanava dalla Costituzione. Si è consumata una corrosione dei valori di fondo su cui si era costruita la Repubblica nel 1947 e questo deterioramento imporrebbe, di per sé, il coraggio leale di una profonda revisione del nesso di enunciazioni che si leggono sulla Carta.

Una volta si parlava di una Costituzione materiale per segnare uno scarto da quella formale enunciata dal testo fondamentale. Oggi è da discutere se la Carta, le sue regole siano ancora lo specchio di una società divenuta nel frattempo – in modo anche tumultuoso e imprevisto – multirazziale, agnostica, relativista, tollerante ai limiti dell’indifferenza, sospettosa, predatoria in molti suoi segmenti (verso l’ambiente, verso le risorse pubbliche o con l’evasione fiscale). La pandemia, probabilmente, ha assestato un colpo definitivo in questa direzione, con i suoi squilibri, le sue paure, le sue nuove povertà, lo scetticismo di milioni di persone sul governo sanitario. La guerra in modo ancora più radicale dovrebbe spingere lo sguardo non verso il nemico – quello scontato, inguardabile, impresentabile – ma piuttosto verso quanti possono patirne le conseguenze. Bisognerebbe guardarsi intorno e indietro.

In questo sconvolgimento di valori e dei interessi nuovi che tutti insieme cospirano contro l’uguaglianza, la solidarietà, la mitezza, la redistribuzione, la pace – ossia contro le radici profonde che i costituenti avevano posto a fondamento della Repubblica e dell’ homo novus che essa pretendeva di modellare – occorre necessariamente inchinarsi verso gli ultimi. In questi anni in cui l’implosione o anche solo il mutamento etico della nazione sta diventando evidente e una nuova morale collettiva stenta a trovare spazio stritolata com’è da corporazioni robuste, sono costoro quelli che tendono a pagare il prezzo della guerra. Sono i poveri, i marginali economici e sociali, gli “scarti” direbbe la Chiesa, sono questi quelli che tutti i giorni e dappertutto appaiono spaventati dal conflitto e dalle sue conseguenze. Quanti sono in bilico tra un piccolo benessere e una sofferta sopravvivenza scrutano il cielo mediatico dei belligeranti nostrani e si chiedono quale bene porterà loro questa guerra.

Quali costi imporrà loro, se la linea rossa della povertà sarà di nuovo strappata e nessun reddito di cittadinanza potrà rammendarla. Con il passare dei giorni si coglie sempre più forte la sensazione che i “protetti” – si sarebbe detto una volta con una dose di noioso populismo i “forti” e i “potenti” – assistono allo scempio delle armi con una sorta di partecipato senso agonistico, quasi che l’arena mediatica restituisca loro una dose di maggiore tranquillità e di migliore di sicurezza. Sono sereni al solo cospetto del fatto che, sotto lo schermo nobile della libertà e della democrazia, gli Stati siano disponibili a spargere tutto il sangue necessario perché le società opulente dell’Occidente non perdano un’oncia del loro benessere. Gli “scarti” pensano ai loro nonni in trincea sul Carso o sulla Somme o sulle Ardenne o a Stalingrado o a Omaha; pensano ai body bag dei soldati americani in Vietnam o a quelli spediti a morire in Iraq, in Afghanistan e altrove.

Pensano che la guerra non ha mai portato niente di buono per gli ultimi, se non il rischio di finire accoppati nei campi di battaglia o di vivere di stenti. Ecco il dibattito su quel che sta accadendo nel mondo in queste settimane dovrebbe misurare l’entità di questa separazione, il costo di questa profonda scissione tra chi trae ogni beneficio dalla difesa dei cosiddetti valori occidentali – in cui si è trascolorata e annacquata l’etica costituzionale – e chi vede dissolversi l’ombrello protettivo di una società solidale e inclusiva in cui sperava di poter trovare riparo.