La guerra, la sinistra, l’articolo 11 della Costituzione. E ancora: una chiarezza che non c’è sulle finalità del sostegno alla resistenza ucraina. E un consiglio a Mario Draghi. Il Riformista ne parla con chi ha lasciato un segno indelebile nella storia della Sinistra italiana, del Pci in particolare. Il suo ultimo segretario: Achille Occhetto.

Putin che minaccia l’uso di devastanti armi “segrete”. Il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Austin che avverte: “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”. E sulla stessa lunghezza d’onda è il Primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson. Come la vede?
La guerra sta prendendo una piega molto preoccupante. Il punto centrale di questa preoccupazione sta nel fatto che non è chiaro in quale prospettiva politica devono essere collocate le armi inviate alla “resistenza” ucraina. Mattarella ha detto con chiarezza che l’appello alla pace non significa arrendersi di fronte alla prepotenza. Pertanto non si possono mettere sullo stesso piano le pallottole dell’aggressore e quelle dell’aggredito. E nemmeno sostenere che la colpa dei massacri di questa guerra ricade su chi, aggredito da un più forte, cerca alleati per difendersi. È del tutto evidente che lo spirito che informa di sé l’articolo 11 della nostra costituzione, secondo cui la guerra non può essere usata come uno strumento per risolvere le controversie internazionali, è stato calpestato dall’aggressore. Io sono decisamente per il disarmo e contro qualsiasi guerra. Ma, come ho già sostenuto da queste colonne, la lotta al riarmo generalizzato non deve iniziare dal disarmo di chi resiste al sopruso di un imperialista aggressore qual è Putin.

L’escalation militare e quella delle dichiarazioni delineano volontà di riscrivere con la forza un nuovo ordine mondiale…
La pretesa di Putin di riscrivere i confini con il sangue di una aggressione è politicamente criminale per la stessa Russia. E non può diventare un precedente. Sia ad Est che a Ovest bisogna incominciare a capire che il tema del millennio non è quello di spostare i confini verso nuovi baricentri: il centro sono i destini del Pianeta, da affrontarsi concentrando le risorse sulle grandi emergenze ecologiche e sociali in una visione totalmente nuova della sicurezza. In questo contesto il nuovo ordine mondiale dovrebbe uscire in modo radicale dalla vecchia contrapposizione tra Est ed Ovest, e anche dal vecchio atlantismo. Con la consapevolezza che sono mutati i termini della contrapposizione propri della guerra fredda, e il problema non è di riproporli sotto mentite spoglie. Il che ci impone di ripensare l’insieme degli organismi internazionali in un mondo che è diventato bipolare. Proprio per questo la stessa difesa dell’Ucraina va collocata in una prospettiva che rifiuta l’idea stessa di una nuova contrapposizione tra Est ed Ovest. Dobbiamo renderci conto che siamo entrati in una fase nuova della guerra e che questo è diventato l’obbiettivo strategico di Putin, tendente a riaprire, attraverso il massacro degli ucraini, una fase inedita dello scontro con gli Usa, presentandosi come la punta di diamante del resto del mondo contro l’Occidente.

In mezzo però c’è l’Europa. Come sta agendo e cosa dovrebbe fare?
In questa situazione l’Europa dovrebbe rifiutarsi di essere trascinata su questo stesso terreno, respingendo decisamente la via di una guerra per procura per regolare definitivamente i conti con Putin, e, tanto meno, protraendo lo scontro all’infinito e dentro la camicia di Nesso di un confronto di civiltà a prospettive catastrofiche. Per questo dico che bisogna affermare con forza che non vogliamo che la sporca guerra di Putin detti l’agenda all’umanità nella direzione del riarmo generalizzato e dell’uso delle armi di distruzione di massa. È su questi temi che dovrà impegnarsi un autentico pacifismo, muovendosi sul terreno propositivo di una nuova visione universalista del mondo e delle relazioni internazionali. In una prospettiva volta a coinvolgere tutti nella ricerca di un comune modello di sicurezza collettivo, affrontando in modo diverso, da quanto fatto colpevolmente in passato, il tema di una originale riorganizzazione dei rapporti internazionali, come si sarebbe dovuto fare dopo il crollo del bipolarismo della Guerra fredda.

Si è detto e scritto che sostenere la resistenza ucraina, anche militarmente, è condizione per arrivare a un negoziato. Ma qual è il vero obiettivo di questo sostegno? Arrivare ad una pace giusta o la vera posta in gioco è l’abbattimento del regime russo e non solo di “zar Vladimir”?
Non possiamo nasconderci che stiamo passando dalla fase in cui era sacrosanto dovere aiutare la difesa del popolo ucraino anche militarmente ad una nuova fase in cui sta diventando controverso l’obbiettivo verso cui indirizzare la forza militare. Nella prima fase, se all’Ucraina fossero stati negati gli strumenti della sua difesa, probabilmente si sarebbe giunti prima a una precaria fine del conflitto attraverso l’immediata capitolazione di Kiev, la sottomissione di tutto un popolo a un regime imposto dall’estero e l’affermazione del perverso principio secondo cui le controversie internazionali possono, agevolmente, essere risolte con la guerra. Una sconfitta sistemica della pace su scala mondiale! Se questo è pacifismo… faccio fatica dichiararmi pacifista. Ma non è questo! Il pacifismo non è obsoleto. C’è pacifismo e pacifismo. Invece è autentico pacifismo interrogarci, dopo più di due mesi di orrori, sul destino delle persone, di vecchi, donne e bambini che languono al buio negli scantinati, senza cibo, acqua, medicine, in una interminabile morsa del terrore, e se la missione dell’Europa non sia quella di cercare di imporre, attraverso l’azione attiva dei popoli, una immediata cessazione delle ostilità, al fine di creare le condizioni di una trattativa che abbia per l’immediato, come obiettivo la fine del calvario di un intero popolo.

La diplomazia delle armi detta legge…
Lo vedo, questo obiettivo è stato bombardato da Putin lanciando un missile su Kiev il giorno stessa in cui il Segretario generale dell’Onu si trovava in quella città. Tuttavia la diplomazia non deve demordere. Ma deve essere aiutata, sorretta da una forte mobilitazione su un unico, unitario obbiettivo: quello della cessazione del fuoco. Così è avvenuto nella guerra del Vietnam, dove la mobilitazione dei giovani non era genericamente contro la guerra, ma contro quella guerra, quella aggressione. Perché era del tutto evidente per quei giovani che il compito di iniziare a cessare il fuoco spetta, prima di tutto, a chi l’ha acceso. Oggi il problema è lo stesso. Con una differenza importante, però…

Vale a dire?
Che il cosiddetto Occidente non dovrebbe attizzarlo, il fuoco. Come sta avvenendo con alcune prese di posizione di Johnson, e non solo, tendenti, uscito dall’Europa, a indicare, dall’esterno della nostra comunità, la direzione strategica dello sbocco del conflitto. L’Europa, a mio modesto avviso, dovrebbe incominciare a parlare con una voce sola e a sovrastare le voci che si discostano dalle sue… se ci sono. In parole povere l’Europa non può consentire che il conflitto in corso sia volto a rispondere a Putin sul suo stesso terreno, sia pure capovolto. Cioè quello indirizzato a ridisegnare i confini tra Est e Ovest nella prospettiva di una lunga e rinnovata guerra fredda. Perché, in tale scenario, l’Europa non potrebbe affermare la sua autonomia e la sua missione universalista, che dovrebbe guardare al mondo a tutto tondo, attraverso il mappamondo, superando il “terrapiattismo” dell’attuale geopolitica. Certo rimane centrale la scelta tra democrazia e autoritarismo. Ma questa scelta diventa, per davvero egemonica, se la si persegue, anch’essa, a tutto tondo, ad Est ed a Ovest, e in tutti i continenti. Soprattutto cercando di superare le debolezze delle attuali “liberal-democrazie” nella direzione di una democrazia inclusiva. Ridando significato alle parole.

“C’era una volta il Parlamento. Ora c’è la guerra”. Titola così questo giornale l’editoriale di Piero Sansonetti. “Operazione-Ucraina, Camere all’oscuro”. Il riferimento è alla secretazione del tipo di armamenti che l’Italia ha fornito o si appresta a fornire all’Ucraina. Biden, Scholz, Johnson, Macron hanno scelto la trasparenza. Perché noi no?
Francamente non ho la conoscenza delle procedure che regolano questi casi. Tuttavia credo che questo stesso problema vada affrontato politicamente, definendo in quale prospettiva politica devono essere collocate le armi inviate alla “resistenza” ucraina. Infatti quello che interessa conoscere non è tanto la qualità delle armi che vengono inviate, attraverso la problematica distinzione tra armi offensive e armi difensive, bensì l’obiettivo per le quali vengono usate. È ormai evidente, come dicevo precedentemente, che sono sul tappeto due ipotesi: quella del loro uso per la sconfitta definitiva di Putin attraverso un prolungamento della guerra di cui è difficile conoscere gli sbocchi e quella volta a costringere la Russia alla cessazione del fuoco e a sedersi al tavolo della trattativa. Questo è quello che, a mio avviso, Draghi dovrebbe porre con decisione nel suo prossimo incontro con Biden. Sviluppando con coerenza la sua importante rivendicazione della centralità dell’Europa fatta davanti al parlamento di Strasburgo e rivendicando, a schiena dritta, il diritto di partecipare alla definizione della strategia complessiva riguardante lo sbocco del conflitto. Come Italia e come Europa. Naturalmente vedo che anche questa strada è molto difficile da perseguire, soprattutto dopo le vergognose e inquietanti esternazioni del ministro degli esteri Russo, cioè del capo della diplomazia di quel paese. La dichiarata volontà di non sedersi al tavolo della trattativa fino a che non sia finito il lavoro sporco è, hinc et hunc, il principale ostacolo alla pace. Ciò non toglie che occorra fiaccare la posizione di Putin aiutando la resistenza ucraina e, contemporaneamente, mobilitando l’opinione pubblica, in modo massiccio, non genericamente contro la guerra e per la pace, da un lato, o per una misteriosa vittoria, dall’altro, ma attorno all’obiettivo centrale della cessazione del fuoco e dell’apertura della trattativa.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.