Arrivo all’aeroporto di New York, dove gigantesche folle pasquali si accumulano nelle fosse comuni dei check-in e sento negli altoparlanti un avviso inusuale: «La precedenza agli imbarchi verrà data ai membri delle forze armate, seguiranno i passeggeri della prima classe…». È così che per la prima volta fiuto la guerra in America. Penso che i membri delle forze armate siano in abiti civili perché non si vede un’uniforme. Ma a migliaia stanno partendo per raggiungere le basi Nato in Europa Orientale. E seguiterà a fiutarla nel sentimento della paura e anzi del panico man mano che ascolto la gente. Sono diretto in Florida dove vado a trovare i miei figli, e le ore di attesa per i ritardi si accumulano e ascolto come posso la gente mentre guarda le News. La metà dei viaggiatori sono americani di lingua spagnola e le immagini della guerra qui sembrano più brutali e violente di quelle cui sono abituato in Italia. Un gran numero di generali pensionati ed ex dirigenti dei servizi segreti azzardano previsioni, tutte pessime.

Il concetto è sempre lo stesso: Putin è deciso a vincere una guerra che per ora sta perdendo. Dunque, poiché da anni parla delle armi atomiche come di armi “normali”, è ragionevole tenere che andando avanti così, prima o poi userà le cosiddette atomiche tattiche, che sono dei mostri più potenti delle due che gli americani sganciarono su Hiroshima e Nagasaki. Quando il presidente austriaco è tornato domenica da Mosca confermando che Putin si dice sicuro di vincere, media e social americani hanno avuto un’impennata: “President Putin is ready to use nukes”, è pronto a usare testate nucleari perché è l’unico mondo con cui potrebbe vincere una guerra che sta perdendo. Putin viene sempre chiamato “President Putin” con rispetto formale, E ieri l’altro la stampa americana, e in particolare il New York Times è uscito con una lunga ricostruzione dei pessimi rapporti personali fra Obama e Putin, nati dal fatto che quando il presidente americano ebbe il suo primo e unico incontro con Putin, lo descrisse ai giornalisti come “il tipico odioso compagno di classe che disprezza tutti e vuole fare a botte all’uscita della scuola”.

Ma, ciò detto, sarebbe meglio smettere di pensare, come a noi europei e italiani in particolare viene benissimo, ad un’America divisa e aggressiva: al contrario si vede ovunque un’America, e i suoi cittadini, terribilmente spaventati e uniti. Si sente dire invece che Putin con la sua arroganza ha ottenuto l’impossibile riavvicinamento fra democratici e repubblicani. Anche se con qualche metro di coda di paglia perché tutti ricordano che Trump per far fuori Biden durante la corsa alla presidenza, propose al presidente Zelensky uno scambio di informazioni contro la famiglia Biden, implicata in affari ucraini attraverso Hunter Biden, figlio di Joe. E nei talk show si fa spesso riferimento all’affare ucraino come a un uovo di serpente che prima o poi si sarebbe dischiuso. Ma non esistono o almeno non sono visibili dei filo-putiniani. La logica anglosassone non permette cento sfumature di grigio tra vero e falso, buono e cattivo, aggressore e aggredito, sicché nessuno ha il minimo dubbio su come siano andate le cose e su ciò che probabilmente bisognerà fare. Nessuno vuole la guerra ma sono molti, specialmente fra i veterani che costituiscono una larga porzione della società, a ricordare con nostalgia la dottrina cara a Henry Kissinger – quasi centenario ex segretario di Stato del repubblicano Richard Nixon – secondo cui Russia, Iran e Cina andrebbero colpite in modo irreparabile per poter finalmente chiudere il tempio di Giano e porre fine all’epoca delle guerre.

E poi c’è l’odio per l’Europa. Gli americani con una memoria storica sanno che a loro viene periodicamente chiesto di far partire come nella leggenda del Minotauro i loro giovani per immolarsi su quel pezzo di mondo in cui si innescano le guerre mondiali, che poi tocca agli americani vincere per piegare la prepotenza degli imperi. Si avverte la paura di essere di nuovo chiamati a morire in Europa, e intanto chiamati a rafforzare le frontiere e svolgere il ruolo del primo contingente che nel 1918 mandarono in Francia per capovolgere le sorti della Grande Guerra che era ormai data per vinta dai tedeschi e dagli austriaci. Contrariamente a quel che pensiamo in Europa, gli americani odiano gli imperi e hanno sofferto una profonda crisi di coscienza quando si trovarono a possedere come una colonia le Filippine ereditate dalla guerra contro l’impero spagnolo. Ma gli americani imparano nelle scuole di aver dovuto attivamente liquidare con il loro sangue l’impero spagnolo, il giapponese, quello tedesco, l’austro-ungarico, quello zarista (oggi di ritorno con la dottrina Putin) e di aver imposto a Londra lo smantellamento dell’impero difeso da Winston Churchill e aver reso lo stesso servizio ai francesi nel Nord Africa. E allora, l’annuncio negli aeroporti che stabilisce la precedenza negli imbarchi del personale delle forze armate, suona come un primo avviso di quel che potrebbe accadere.

I ragazzi americani – tutti volontari perché negli Stati Uniti non esiste più il “draft”, la leva militare – sono nei footage dei telegiornali mentre si sistemano in un panorama di foreste che potrebbe apparire idilliaco se non fosse il confine polacco o rumeno. Ma gli americani sono per loro natura di origine inglese molto patriottici e poco enfatici. Guardano alla guerra che potrebbe scoppiare come a un doloroso destino. Ma per quanto ho potuto udire, leggere e capire, tutti trovano ovvio più che doveroso dare armi agli ucraini per difendersi e non morire. L’americano medio vuol veder crescere il proprio tenore di vita ed assicurarlo ai suoi figli, vuole commercio e non avventure militari e tuttavia paga in tasse, per avere una forza armata che da sola regge il confronto con tutte le altre anche coalizzate, quanto noi paghiamo – in proporzione – per il servizio sanitario nazionale. E in una situazione come quella di questo infernale 2022 sono, senza enfasi, sollevati dalla consapevolezza di essere forti ma sanno di essere vulnerabili come mai prima.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.