A Francesco Mutti, emiliano, classe 1968, il pomodoro scorre nelle vene. Dal 1994 è Amministratore delegato di Mutti Spa, l’azienda di conserve di pomodoro fondata nel 1899 dai fratelli Mutti. Con la sua gestione il fatturato dell’azienda passa dagli 11 milioni di euro nel 1994 ai 340 milioni nel 2019. Nel 2018 viene chiamato a presiedere Centromarca, l’Associazione Italiana dell’Industria di Marca che “promuove l’affermazione dei valori del Sistema Marca nel mercato e nella società”. Al suo tavolo siedono circa 200 tra le più importanti multinazionali italiane e straniere da Ferrero a Walt Disney, Barilla e Unilever. Per Mutti questa «iper-informazione urlata sul Coronavirus non sta facendo bene al made in Italy».

Presidente, che tipo di difficoltà stanno affrontando i vostri associati in termini di produzione, ordinativi ed export come conseguenza del Coronavirus?
Credo che i pericoli siano di tre tipi. Il primo è un’eccessiva enfasi che rischia di danneggiare l’immagine dell’Italia nel suo complesso. Se noi veniamo percepiti come un lazzaretto inevitabilmente i nostri prodotti ne verranno danneggiati; si penserà ad un prodotto malato. Il secondo tema è che non si possono fermare per 15 giorni le aziende in cui un dipendente è stato colpito da Coronavirus. Sarebbe un danno economico clamoroso per l’azienda, per i lavoratori ma anche per il sistema nazionale.

Anche perché non in tutti i casi lo smart working è possibile…
Noi siamo aziende di prodotto e per produrre serve che le nostre fabbriche siano aperte.

E il terzo punto?
L’altro punto che ci lascia preoccupati è la gogna mediatica a cui viene sottoposta l’azienda colpita dal male misterioso. Mettere in prima pagina il nome dell’azienda in questione, come se avesse una colpa, tende ad allontanare il consumatore e a creare danni di immagine importanti, anche se i prodotti sono sicuri. È valore che viene distrutto. In questo senso è indispensabile una comunicazione più attenta e consapevole.

Reputate idonee le misure adottate dal governo per far fronte all’emergenza?
Amo un mondo in cui i professionisti parlano delle cose di cui sanno. Io mi occupo di impresa.

Gli aiuti all’economia sono sufficienti?
Quando si blocca un’attività economica raramente può esserci un ristoro adeguato. Per il resto aspettiamo di vedere come verranno effettivamente erogate queste risorse e dopo quanto arriveranno.

Centromarca si occupa di “promuovere l’affermazione del Sistema Marca nel mercato e nella società”. Come andrebbe tutelato in questa fase il brand Made in Italy?
Il Made in Italy va tutelato e va costruito nel lungo periodo. E per costruirlo bisogna dare competitività al sistema Paese, prendersi cura dell’ambiente in cui viviamo, avere regole chiare. Un’Italia in cui si vive bene comunica un’immagine positiva nel lungo termine. Questo è il primo imprinting che dovremmo dare al “made in Italy”.

Sì, ma con il Coronavirus che cosa bisogna fare secondo voi?
Questa iper-informazione urlata sul Coronavirus non sta facendo bene. Il problema dell’Italia non è solo il virus in sé, ma il fatto che questo virus sta colpendo un organismo, un sistema Paese, già debilitato. E sappiamo bene quanti danni possa fare un virus su un organismo debole.

Cosa rende debole l’Italia dal suo punto di vista?
Innanzitutto la scarsa capacità di riformarsi. Siamo un Paese che non si muove, che gode di una ricchezza passata e che ha una bassissima capacità di produrne di nuova. Si investe troppo poco e abbiamo smesso di investire in quello che è il miglior ritorno sull’investimento: la formazione e la scuola in generale.

Di potenzialità, invece, ne vede?
Ci sono delle potenzialità, ma la consapevolezza ci dice una cosa: dall’inizio degli anni 2000 ad oggi l’Italia non è cresciuta per niente.

Tranne che per l’export…
Esatto, ma se prendiamo il Pil italiano non siamo cresciuti più del 3% tra il 2000 e il 2020. Un tempo era quello che si faceva in un anno.

Che cosa ci manca?
La capacità di reazione. Si comprende la vitalità di un organismo non tanto da quello che gli succede, ma dai modi e dai tempi con cui reagisce. E l’Italia reagisce lentamente, pochissimo e con poca voglia.

E per quanto riguarda le imprese? Secondo uno studio che avete recentemente commissionato a Nomisma “piccolo è bello” ma “grande è meglio”. Quali sono le vostre proposte al Governo per favorire le aggregazioni tra i piccoli produttori?
Un mio dogma è che quando c’è un sistema competitivo efficiente l’aggregazione avviene molto più facilmente e noi, purtroppo, non riusciamo ancora ad essere competitivi. Il piccolo è bello, ma il piccolo non ci porterà mai né in Europa né nel mondo.

C’è un problema di cultura dell’impresa?
Assolutamente sì. C’è un problema di cultura dell’impresa e di condizioni di operatività dell’impresa. Anche perché in Italia, quando un’azienda cresce, si crea una sorta di alone di sospetto, come se l’imprenditore avesse fatto qualcosa di male. L’anti-industrialismo e l’anti-imprenditorialità sono dei paradigmi e dei sentimenti ancora latenti che incidono pesantemente e che andrebbero superati.

Cosa suggerirebbe ad un giovane che vuole fare impresa oggi?
Di dedicarsi anima e corpo a realizzare un progetto. Di cesellare l’impresa a cui dà vita con la stessa maniacalità con cui un bravo artista modella un’opera d’arte. Di essere corretti e trasparenti verso i collaboratori e verso i clienti, ma anche di essere ben consapevoli che ad oggi fare impresa in Italia è estremamente complicato.