Ci troviamo di fronte a dilemmi inediti. I progressi della medicina rendono complicate le distinzioni tradizionali tra eutanasia attiva, passiva e accanimento terapeutico. Emergono tante situazioni diverse e, quindi, una sensibilità particolare diffusa sulla dignità del morire di cui occorre tenere conto. Il diritto insegue questi fenomeni, come può. Esso si muove da un’impostazione di partenza, quella del codice penale vigente, che è di matrice sostanzialmente paternalista-statalista. Il rigore della norma penale è molto forte, sembra ignorare zone grigie e ammettere al massimo delle riduzioni di pena per situazioni particolarmente delicate, escluso ovviamente chi tenta senza successo il suicidio che non avrebbe comunque senso punire. Tende cioè a dare allo Stato un monopolio sul concetto di dignità negando spazio alla libertà.

Per questo c’è stata una forte adesione alla raccolta di firme referendarie, specie tra le generazioni più giovani. C’è però il rischio di una reazione unilaterale di senso opposto, di tipo libertario estremo, che nega qualsiasi legame tra persona e comunità, tra persona e gruppi sociali, arrivando a un’autodeterminazione assoluta di sé, del proprio corpo. Qui domina su tutto l’idea di libertà e non spetta alla comunità o a uno Stato altrimenti etico porre dei limiti in nome di una dignità intesa in senso soggettivo e non più oggettivo (con riflessi preoccupanti anche su altri aspetti: ad esempio teorizzando un diritto di disporre del proprio corpo, anche sottoponendosi a pratiche di mutilazione genitale; un diritto di prostituirsi; un diritto di drogarsi, ecc. ecc.). In altri termini le due posizioni estreme, quella paternalistico-statalista e quella libertaria, escludono zone grigie, ambigue, vedono tutto chiaro: per la prima si estende al massimo la sovranità dello Stato sulle vite e sulla loro dignità, qualsiasi istanza di autodeterminazione va punita; per la seconda lo Stato si riduce al minimo, dove esso si ritrae ci sono diritti individuali non negoziabili, c’è una libertà assoluta.

Invece l’impostazione data dalla Corte con le sue decisioni cerca di individuare dei parametri oggettivi che individuano una zona grigia in cui lo Stato si ritrae, ma non perché dall’altra ci siano diritti individuali non negoziabili, ma solo perché alcuni comportamenti, pur negativi, non possono essere oggetto di intervento penale e quindi sono liberi. Al di là del dettaglio su questa o quella condizione di non punibilità del singolo, la Corte in sostanza cerca di individuare la frontiera tra malattia irreversibile, o comunque intollerabile, e non malattia. Dove queste condizioni oggettive non ci sono, e dove quindi il legame tra persona e comunità è solido, esso non può essere spezzato. Dove viceversa il legame è ormai indebolito al massimo, o comunque pressoché scomparso, il diritto penale si può ritrarre prendendo atto di questa realtà. Qui passa la frontiera tra l’equilibrato testo-base delle Commissioni Giustizia e Affari Sociali sull’aiuto al suicidio che sviluppa la giurisprudenza della Corte, che può anche essere declinata in modi diversi dal momento che ha detto ciò che è incostituzionale ma non ha dato una soluzione univoca, e il quesito referendario che invece giunge alla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, anche di quello sano. È il confine che c’è tra una posizione liberale e una libertaria.

Per inciso questi criteri ci possono guidare anche nella valutazione del quesito referendario sulla depenalizzazione per la coltivazione della cannabis a uso personale, il quale, se elimina le sanzioni penali, ne lascia comunque alcune di tipo amministrativo, ossia la sospensione del porto d’armi, del passaporto e del permesso di soggiorno per motivo di turismo. Pertanto, non si tratta di una liberalizzazione, ma solo di una depenalizzazione, non dell’affermazione di un diritto, ma di una autolimitazione dello Stato col diritto penale (anche qui del riconoscimento di una libertà). Ovviamente alcuni dei promotori sarebbero anche a favore di una liberalizzazione, ma il referendum non sarebbe stato ammissibile se fossero scomparse anche le sanzioni amministrative. Possiamo quindi dire che tecnicamente quel quesito è liberale e non libertario, a differenza di quello sull’eutanasia. Tuttavia le norme di depenalizzazione se rinunciano a punire comportamenti visti comunque come negativi dovrebbero essere bilanciate con interventi preventivi per rimuovere il problema, non per accettarlo passivamente.

Mentre il quesito referendario sulla droga non mi sembra porre particolari problemi di ammissibilità e di contenuto, quello sull’eutanasia ne pone almeno due. Il primo è tecnico, di ritaglio del quesito, che sembra fortemente manipolativo, sembra riprodurre la critica che ha condotto ad altre inammissibilità, quella di attingere ai testi vigenti come un serbatoio di parole. Il secondo è di contenuto: la Corte tende a non esprimersi quando valuta sull’ammissibilità anche sulla costituzionalità della normativa di risulta. Ma non siamo certi che di fronte a uno scarto molto forte tra le ordinanze della Corte, che si limitano ai malati, e il quesito che coinvolge anche i sani, la Corte si astenga da un giudizio di questo tipo, qualora valutasse appunto che si tratti di un’incostituzionalità manifesta già evidente in via preventiva. È peraltro così netto il quesito sulla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente che, ove ammesso, risulterebbe difficile per il Parlamento superarlo ed evitare quindi la consultazione, senza farlo proprio per intero.