Sono trascorsi 10 anni da quando Massimo Pavarini e io abbiamo scritto il manifesto “No Prison”, venti punti per affermare un’idea di pace e riconciliazione che riduca il più possibile il dolore e la sofferenza, in tanti casi la morte, delle persone che hanno commesso reati e una fondamentale attenzione alle vittime. Il bollettino dei disastri che questi luoghi producono nel nostro Paese è all’attenzione di tutti, una scia di sangue che di anno in anno non si arresta, mentre è urgente intervenire con scelte che riportino la legalità anche nelle città recluse. Nel 2022 sono state 84 le persone che si sono suicidate e 190 i morti nelle carceri italiane, oltre alle migliaia di atti di autolesionismo e le innumerevoli violenze, una fotografia di guerra per luoghi che dovrebbero essere garantiti dai diritti in uno Stato democratico.

La storia del carcere è percorsa da una irrisolta ambiguità tra la volontà di rinchiudere i soggetti che delinquono e quella di rieducarli per il reinserimento, e in questa dicotomia c’è un inganno di fondo determinato dal fatto che il contenitore carcere ammassa sempre e ovunque donne e uomini deboli, infatti è nato per rinchiudervi i poveri e per loro è rimasto anche ai giorni nostri, e sui poveri si può speculare impunemente senza pericolo di contrapposizioni, perché le prigioni sono popolate da persone senza risorse economiche e poche culturali. L’ideologia politica delle pene non si ferma più solo al punire le persone in seguito a un reato ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale. In effetti, attraverso il diritto penale si perseguono finalità politiche di controllo sociale che tendono a criminalizzare anche soggetti che vivono nella marginalità, nei cui confronti è assente una richiesta sociale di censura, e che il potere invece addita come nemici pur se non necessitano del ricorso all’istituto della pena per essere controllati.

Attenzione perché se il sistema penale pone fra i suoi obiettivi quello della difesa sociale, per avviarsi sulla strada della incapacitazione di soggetti appartenenti a frange avvertite come pericolose, si colloca in un ambito improprio che è quello di polizia, fuori da un contesto proprio di uno Stato di diritto e fuori dalla Costituzione. La maggioranza delle persone recluse sono giovani, immigrati e tossicodipendenti soprattutto, provenienti da strati sociali deboli e marginalizzati, quasi sempre coinvolti in economie e mercati illegali in ruoli subalterni, autori di delitti predatori o di criminalità opportunista, cosa che rende e purtroppo questa tendenza di aumento della carcerizzazione continuerà, in quanto il percorso è ben visibile e tracciato e porta alle minoranze razziali, etniche, culturali, sociali ed economiche segnate da stili di vita ai margini della legalità e irrimediabilmente perse a ogni speranza realistica di inclusione, nella logica militare di: “più prigionieri faccio, da meno nemici dovrò guardarmi”.

Il carcere è solo l’anello finale di una catena giudiziaria che è mera vendetta di uno Stato che applica ancora la legge del taglione, l’odio istituzionalizzato, e non ha cura né del reo e nemmeno della vittima. La genesi è nelle aule del tribunale dove poveri e stranieri, spesso la stessa persona, sono condannati in ragione di una mancanza di reale difesa, mentre il termine giustizia si coniugherebbe veramente al suo più alto livello se il magistrato uscisse dalla recita inquisitoria e avesse interesse del presunto reo, nella sua unicità, cosciente che la vita è breve e che dall’errore può arrivare il cambiamento. La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere è considerato un male necessario, nella mancanza di coscienza e conoscenza in generale, senza sapere che provoca più problemi di quanti ne risolve. Sembra non possa esserci alternativa a esso, mentre l’unica soluzione possibile è l’abolizione delle prigioni che non è un’utopia.

Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione di non carcere. È possibile vivere in un mondo migliore, con un’esecuzione della condanna che sia rispettosa dei diritti dei condannati; invece di reprimere è più utile, sicuro e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali. Ma è necessario buona volontà e un atto rivoluzionario per eliminare le prigioni di Stato con le loro torture. Cito dal nostro Manifesto: “Credere e praticare oggi una volontà abolizionista del carcere è irrealistico quanto nel passato lo fu invocare l’abolizione della tortura e della pena di morte”.

* Portavoce di “No Prison”