Quando l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi presentò il nuovo Codice degli appalti (D.Lgs. 50/2016) ci tenne a sottolineane la diversa struttura rispetto al precedente codice ed una riduzione del numero degli articoli. Peccato che il minor numero di articoli (di lunghezza tale che spesso uno ne vale tre di quelli del vecchio codice) e l’accorpamento nel codice anche delle norme di dettaglio strettamente operative (prima contenute nel regolamento attuativo) non ha semplificato ma ha complicato le procedure di gara; oltre al fatto di essere scritti in forme spesso incomprensibili e sibilline: è un dato non contestabile che i primi interpreti e commentatori non nascosero, nel corso di numerosi convegni, la loro difficoltà di lettura di norme che risentivano di una stesura troppo frettolosa e farraginosa e, quindi, di difficile applicazione.

A ciò si aggiunga il ruolo di integrazione normativa affidato all’ANAC, con il compito di specificare (o imporre?) uniformi modalità applicative attraverso linee guida che dirigano l’attività delle stazioni appaltanti, fornendo interpretazioni che spesso vanno oltre l’intenzione del legislatore, non solo quello nazionale ma soprattutto quello comunitario; chi tratta questa materia ben conosce le numerose infrazioni contestate dalla Corte di giustizia europea ad un codice che, più che favorire, mortifica la libertà imprenditoriale ed irretisce le imprese in un dedalo di controlli, accertamenti, verifiche che, anche se indotti da condivisibili finalità (contrasto alla criminalità organizzata), finiscono per “criminalizzare” anche le più banali irregolarità, spesso provocate proprio dalla stessa pubblica amministrazione e dai suoi ritardi nei pagamenti.

La complessità delle regole mostra, in particolare nel settore dei servizi, evidenti limiti di ordine strutturale.
Sono sotto gli occhi di tutti l’onerosità di ogni candidatura che impone uffici-gare necessariamente specializzati per vincere la corsa ad ostacoli degli adempimenti amministrativi spesso criptici o di incerta interpretazione, con il risultato di impedire l’accesso ad imprese di piccola dimensione poco attrezzate per far fronte alla complessità amministrativa e di una conseguente eccessiva durata della gara che, per gli appalti con un minimo di complessità, richiede facilmente 18-36 mesi di tempo per arrivare alla sua conclusione.

Altrettanto oneroso è contestare gli errori o le erronee valutazioni delle stazioni appaltanti, che danno luogo ad innumerevoli contenziosi amministrativi: i soli costi vivi – ossia tasse, esclusi gli onorari professionali del proprio difensore – per accedere ad un giudizio amministrativo per un appalto del valore (irrisorio) di 200.000 euro ammontano a 2.000 euro; per appalti da un milione in su il costo sale a 6.000 euro; quante piccole imprese possono permettersi costi del genere, motivati da un preteso fine di deflazione del contenzioso?

È ben noto, anche all’uomo della strada, che quanto più sono numerose, articolate e farraginose le leggi che disciplinano una materia, con l’obiettivo di non lasciare nulla al caso o alla lettura arbitraria dell’interprete, tanto più generano incertezze, confusioni e contestazioni, ossia danno libero ingresso proprio a quelle conseguenze che si pretende di voler sterilizzare. Il risultato è che moltissime gare vengono decise dopo lunghi giudizi amministrativi (pur nel solco di un rito processuale abbreviato e celere rispetto alla media lunghezza delle cause amministrative), con l’effetto perverso, da un lato, di incrementare i costi sia per le imprese, sia per la pubblica amministrazione, dall’altro di delegare sostanzialmente al giudice amministrativo decisioni che con maggior impegno ed attenzione potrebbero rimanere nell’alveo del procedimento amministrativo e con una accettabile tempistica.

Ma tant’è: i funzionari pubblici, in massima parte, hanno “paura” di decidere su segnalazioni, osservazioni ed anche legittime e motivate critiche delle imprese concorrenti, intese ad evitare storture interpretative o veri e propri abbagli delle commissioni di gara, e rinunciano ad utilizzare quel valido strumento che risponde al nome di ‘autotutela’; ciò anche in ragione di una normativa che – sia pure per motivi condivisibili di corretta gestione del danaro pubblico – costituisce una ‘spada di Damocle’ sul collo dei funzionari pubblici i quali, pur di non incorrere incolpevolmente in possibili accuse di danno erariale o, peggio, di pretesa corruzione, fuggono dalle loro responsabilità, di fatto delegando al Giudice decisioni che essi hanno timore di assumere.

Tutto ciò si tramuta in esiti nefasti sul piano economico per le imprese, le quali nella formulazione di un’offerta devono mettere in conto anche i tempi, a volte biblici, di definizione della gara e, quindi, valutare ora per allora, lievitazione di costi, mutati scenari di mercato o, addirittura, la loro stessa sopravvivenza. Siamo di fronte ad un modello (quello che pretende di camminare con un freno a mano tirato) che impedisce la spinta ad un serio sviluppo economico e sociale, tanto più indispensabile ed improcrastinabile in tempi di Coronavirus.

Qualche riflessione seria verso l’urgente superamento di un tale modello amministrativo appare irrinunciabile, anche se nel rispetto della tutela della legalità e della concorrenza (oggi di fatto formalmente rispettate ma nella sostanza quasi sempre del tutto vanificate), attraverso una visione dei problemi da risolvere che rimetta al centro i risultati da perseguire e non una sterile ancorché formalmente irreprensibile azione amministrativa, che quasi sempre appare caratterizzare gli attuali procedimenti di gara.

In che modo? Semplificando al massimo il Codice degli appalti, là dove è palesemente incongruente e non funzionante, intervenendo su meccanismi che rendano possibile una celere assegnazione e contrattualizzazione dell’appalto, semplificando i “paletti” per l’accesso alla gara, offrendo alle imprese strumenti di risoluzione interna delle possibili controversie. Ma questo è solo l’inizio di una doverosa riflessione che deve vedere impegnate politica ed imprese.