«Una storia politica si è conclusa. Il Movimento5Stelle è andato in default. Ora è solo una questione di sopravvivenza personale». A sostenerlo è uno dei più autorevoli politologi italiani: Piero Ignazi. Ex direttore della rivista il Mulino, Ignazi è professore ordinario di Politica comparata presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e chercheur associé presso il Cevipof (Fondation Nationale des Sciences Politiques) di Parigi.

Professor Ignazi, dalla scissione nei 5Stelle, è nato “Insieme per il futuro” con a capo Luigi Di Maio. È l’inizio di che cosa?
Di niente. È l’inizio della fine. Non vedo alcuna possibilità che emerga qualcosa. Non si capisce quale sia l’obiettivo se non quello di carattere poco più che individuale. Una storia politica si è conclusa.

Perché?
Perché uno dei fondatori, cioè Di Maio e non certo Conte, ha preso un’altra strada. Il marchio rimane a Conte ma l’identificazione personale è invece da un’alta parte, perché, comunque la si pensi, è un dato oggettivo che la storia di Di Maio è molto più lunga. Allo stesso tempo, però, quel poco, sia pur revisionato da Conte, che era nello spirito e nel Dna politico dei 5 Stelle, resta con l’ex presidente del Consiglio. Con Di Maio siamo al buio più totale. Non si sa cosa sia diventato se non un ministro degli Esteri che nel corso degli anni ha saputo affinarsi in diplomazia.

Da dove parte secondo lei la conclusione di questa storia politica?
È difficile trovare un momento d’inizio. Che non ci fosse un grande feeling tra i due, Di Maio e Conte, è cosa vecchia. Forse si può tornare alla formazione del Conte 2, quando Salvini fece balenare a Di Maio l’ipotesi che lui potesse essere presidente del Consiglio. Certamente son quelle cose che fanno girare la testa. Non so se questo abbia incominciato a incidere lentamente nei rapporti tra i due, è difficile dirlo. Anche perché noi siamo rimasti fermi politicamente per un anno. Non dimentichiamo che il 2020 è stato un anno praticamente bloccato sul piano politico.

Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha più volte evocato il “campo largo” del centrosinistra. Ma più che largo, questo campo appare minato, accidentato.
Esatto. È una ipotesi che non c’è più. Perché è un “campo” terremotato, su cui si muovono ormai tanti attori e comparse. Non c’è più un attore dominante. Certo, il Pd poteva essere dominante. Adesso lo è anche di più. Ma essere dominante in una situazione così frastagliata, senza che ci si sia un duo forte come poteva essere, per l’appunto, quello Letta-Conte, che poteva fare da magnete, è ben poca cosa. Senza più un magnete, anche se potenziale, nel campo si agitano tutte tessere un po’ impazzite.

Nella conferenza stampa di annuncio della sua uscita dal M5S e della formazione di un nuovo soggetto politico-parlamentare, Insieme per il futuro, Di Maio ha parlato esclusivamente di politica estera. Quello che è accaduto è anche frutto della guerra?
Direi proprio di no. Di Maio ha puntato sulle cose che gli sono riuscite meglio. Da ministro degli Esteri ha fatto bene, e questo lo si diceva anche molto tempo fa, quando tutti irridevano sul suo ruolo, per scoprire adesso che è un grande statista. Il paradosso degli eccessi in cui purtroppo cadono molti giornalisti. Di Maio ha imparato bene il suo ruolo e quindi ci tiene a rimarcare le cose che ha imparato facendo questo mestiere. Ciò è assolutamente comprensibile da questo punto di vista. Poi che ci siano delle differenze così clamorose, fa morire dal ridere. Come se Conte fosse improvvisamente diventato un putiniano. Quello che aveva avuto l’endorsement esplicito, al momento del Conte 2, degli Stati Uniti, della Francia, della Germania e dell’Unione europea. Bisognerebbe, per decenza intellettuale, mantenere un po’ il limite nelle speculazioni.

Tutto questo sommovimento è anche in prospettiva delle elezioni politiche della primavera del 2023. A parte che si è tutti in attesa della tanto evocata, ma ancora irrealizzata, riforma elettorale, da scienziato della politica s’immagina un confronto tra due schieramenti o potrebbe materializzarsi una prospettiva diverse?
Adesso c’è una prospettiva chiara: il fronte di destra. Il resto è tutto una nebulosa.

Anche nel campo centrista? L’uscita di Di Maio non ha suscitato entusiasmo, per usare un eufemismo, dalle parti di Renzi e di Calenda…
E come poteva essere altrimenti. Un altro concorrente in uno spazio ristretto è abbastanza preoccupante. È difficile prefigurare quello che potrebbero essere altri “campi” o alleanze. Per questo io penso che ci sarà un’accelerazione per la proporzionale.

A proposito degli inizi della fine. Una riforma elettorale di stampo proporzionale segna la fine dell’idea del partito a vocazione maggioritaria?
Io non so cosa sia questa espressione. Partito a vocazione maggioritaria è qualcosa che, terminologicamente, non esiste negli studi sui partiti. Che cosa si vorrebbe dire? Esistono partiti a vocazione minoritaria, che si prefiggono di voler essere piccoli, deboli, che ambiscono a essere ininfluenti…Capisco che il gergo politico è questo, però c’è un limite a tutto. Giustamente un partito vuol essere maggioritario, ponendosi l’obiettivo di ottenere il 50,1 per cento da solo o in un’alleanza con altri. Che poi ci riesca, questa è tutt’altra storia. Ma lasciamo perdere le “vocazioni”.

Guardando ai risultati elettorali nelle recentissime elezioni politiche in Francia. Questa idea, propria di un pensiero politico che fa ancora proseliti in Italia, per cui si vince occupando al centro, non viene seccamente smentita dai risultati francesi, che hanno visto il successo della sinistra radicale di Mélenchon e, sul fronte opposto, della destra nazionalista del Front National di Marine Le Pen? Questi risultati non raccontano un’altra storia?
Certo che sì. È la storia che alcuni di noi politologi cerchiamo di spiegare da molti anni, cercando di erodere una sorta di verità rivelata, che poteva essere tale negli anni ’50 ma che da tanto tempo non lo è più. Altro che si vince al centro. Si vince invece quando si rendono le proprie posizioni più nette, più chiare, più forti e più contrapposte agli altri. Si vince così, polarizzando. Come ha fatto Trump.

A proposito di “narrazioni” a mezzo stampa. C’è chi ha cercato di presentare Conte, nell’ultima sua versione, come un possibile “Mélenchon” italiano. Lei che ne dice?
Francamente mi sembra un paragone più che azzardato, impossibile. Per cultura politica, innanzitutto. Se si leggessero un po’ gli interventi che ha fatto Conte in contesti internazionali o in altre situazioni. Interventi che riflettono una cultura politica -scontando gli elementi contingenti- che è quella di una tradizione di cattolicesimo sociale, che non ha molto a che spartire con le idee del radicalismo di sinistra.

Guardando invece al campo della destra. La leadership di Giorgia Meloni è ormai assicurata?
Anche qui per default. Salvini ha perso moltissimo, in voti e in credibilità e non credo che possa più aspirare a quel ruolo. Berlusconi gestisce un campo di macerie di ciò che resta di Forza Italia. L’unica cosa che potrebbe scompaginare i giochi e rimettere in discussione la leadership di Meloni è se si facesse avanti un’altra personalità del mondo leghista. L’unico che potrebbe ambire a quel ruolo è Zaia. Se ci fosse una sua candidatura alla guida del centrodestra, le cose potrebbero cambiare. Non si tratterebbe di una candidatura “mediatica”. Zaia è uno che i voti ce l’ha. Ha appeal. Ha una Regione importante come il Veneto. Se ci fosse una candidatura Zaia come leader della Lega, lui sì che potrebbe essere un competitor con possibilità di successo. Detto questo, sulla strada di Meloni ci sono ostacoli non di poco conto che è chiamata a rimuovere. Io vorrei sapere se i suoi amici di Milano, quelli che facevano il saluto fascista, li ha buttati fuori da Fratelli d’Italia oppure no? Non bastano le battute da guitto che ha fatto all’ultimo convegno di FdI.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.