La questione migranti è ormai terreno di uno scontro durissimo, dentro e fuori l’Italia. La posizione della Francia e della Germania, le dichiarazioni della Commissione europea, la sollecitudine papale verso la sorte dei derelitti al largo delle coste italiane e maltesi sono solo l’ultimo atto di un dramma che sembra non conoscere soluzione di continuità a decorrere dagli anni 90. Certo sono in ballo visioni ideologiche, interessi politici, pulsioni populiste, vocazioni religiose e umanitarie e il diritto – quello nazionale e quello internazionale – mostra tutta la sua insufficienza nell’offrire rimedi a questioni che coinvolgono la vita di milioni di persone, i loro diritti, le loro speranze.

La domanda, allora, è chiedersi perché questa regolazione sia così difficile, perché le norme non riescano a trovare alcun punto di equilibrio, perché siano rimesse all’arbitrio dei governi e ai loro contingenti interessi e bisogni di consenso. Difficile articolare in poche battute una risposta. Proviamoci: perché sono in gioco diritti non retrocedibili, sono in ballo interessi tutti meritevoli di tutela nessuno dei quali può considerarsi recessivo rispetto a un altro. Una condizione di stallo assiologico, di paralisi nel conflitto dei valori che rende la materia dell’immigrazione il luogo privilegiato per sostenere tesi unilaterali, tutte plausibili in sé considerate, ma che inserite nel mosaico complesso di ciascuno degli interessi in campo appaiono insufficienti, quando non prevaricatrici.

Iniziamo. È innegabile che i disperati della terra, i derelitti di ogni tempo e di ogni nazione abbiano il diritto di emigrare, la possibilità di costruire altrove la propria esistenza al riparo dalla miseria e della morte; nel caso dei rifugiati, poi, esiste il diritto inviolabile di scappare dai conflitti e dai massacri. Sono diritti inalienabili riconosciuti da tutti gli Statuti internazionali e dalla stessa Costituzione italiana che proclama il diritto d’asilo per coloro i cui diritti di libertà siano conculcati. È innegabile che le Ong abbiano diritto di soccorrere in mare aperto chiunque ritengano di dover salvare, anche a rischio di offrire un hotspot di transito per i trafficanti di esseri umani che ne sfruttano oggettivamente la presenza per quanti possano permettersi un transito meno precario e rischioso. Comunque il diritto alla solidarietà e alla carità è incoercibile e nessuno può immaginare di sanzionare chi opera secondo le leggi internazionali e salva in mare i naufraghi alla deriva. È innegabile che ogni paese abbia il diritto di regolare i flussi migratori e di impedire l’accesso entro i propri confini di immigrati senza alcun controllo e senza alcuna programmazione. 90 mila arrivi in 11 mesi sono, obiettivamente, una cifra enorme e non serve invocare il dovere dell’accoglienza per risolvere la partita. Gli irregolari sono un peso soprattutto per le periferie degradate e abbandonate delle città italiane ed è inevitabile che da lì provenga tanto consenso alle politiche rigoriste di cui si sta inaugurando oggi una nuova stagione.

Diritti che collidono, quindi; interessi che impattano gli uni contro gli altri; mediazioni impossibili, verrebbe da dire, rassegnandosi al pendolo delle scelte governative della maggioranza di ogni tempo, in una perenne oscillazione tra tolleranza e rigore, accoglienza e respingimenti. Come mediare e come cercare soluzioni ragionevoli è allora il vero problema per evitare la fisarmonica impazzita e pericolosa delle serrande aperte o chiuse o semichiuse a seconda dello spirare del vento del consenso. È innegabile che occorra attuare serie politiche di sostegno verso i paesi di provenienza dei migranti. Nessuno scapperebbe da casa se fossero garantite condizioni accettabili di vita e di sicurezza o di pace. La dottrina “Minniti” era solo un primo tentativo per portare oltre il Mediterraneo il fronte del contrasto ai trafficanti di uomini; sembra arrivato il momento di chiedere lo stanziamento da parte dell’Ue di fondi adeguati per sorreggere la vita dei paesi africani, in primo luogo, e per sottrarli alla crescente egemonia cinese in quel Continente che sfrutta, impoverisce e non aiuta le popolazioni poiché indirizzata alla sola ricerca di terre rare e materie prime.

La richiesta di ripartire per quote gli immigrati tra i paesi dell’Unione è in sé insufficiente e di palese, corto respiro; segmentare gli arrivi per distribuirli in Europa è solo un “pannicello caldo”, una soluzione alla fine miope e perdente perché incentiva gli sbarchi e non contiene la spinta vitale alla fuga che sorregge le intenzioni di milioni di persone alla fame. È innegabile che le Ong non possano in alcun modo prestare il fianco all’azione dei trafficanti di uomini, agevolando il recupero in mezzo al mare dei migranti, con il sospetto di preventivi accordi con le organizzazione criminali, operanti sulle coste libiche o tunisine, a ogni partenza dei barchini dei dannati. È innegabile che il nostro paese abbia un disperato bisogno del lavoro, della forza vitale, dell’entusiasmo, finanche del coraggio di tanti che rischiano la propria esistenza per giungere in Italia. La Coldiretti ha chiesto la regolarizzazione di 100.000 immigrati perché possano essere assunti nelle imprese agricole ove la manodopera latita. Parimenti l’industria si dice disponibile a organizzare l’integrazione, l’alfabetizzazione linguistica e lavorativa dei migranti per sopperire ai vuoti causati (anche) da una dissennata distribuzione del reddito di cittadinanza tra gli italiani e non solo.

Se mancano serie politiche di integrazione – che altri paesi avanzati ben conoscono e praticano (la Germania in primo luogo) – il ping-pong con le coste africane è un semplice diversivo populista e fonte di grane enormi in ambito internazionale, come si vede. L’opposizione farebbe bene a impegnarsi su questo fronte in Parlamento, anziché limitarsi a strepitare contro l’inumana politica dei respingimenti del Governo. Certo ci vuole fantasia e coraggio, merce rara di questi tempi. Per giunta, l’elaborazione di politiche di integrazione uniformi e convergenti in ambito internazionale eviterebbe il nation shopping cui si assiste da sempre. È chiaro che gli immigrati corrono verso le nazioni più abbienti e in cui è più semplice trovare un sostentamento; ma è anche certo che questi movimenti transfrontalieri sono agevolati e resi più impellenti dalla estrema oscillazione e diversità delle norme interne che regolano l’integrazione e reprimono le illegalità. Così facendo in Italia restano – si percepisce che restino – tanti immigrati dediti alla commissione dei reati o al lavoro nero e che sanno della scarsa repressione e della molta tolleranza nelle piazze di spaccio o nelle coltivazioni di pomodori. Una sacca di illegalità che alimenta le opzioni populiste, se non razziste e che norme eguali in ambito comunitario potrebbero svuotare nel tempo. Sintesi difficile, ma non impossibile.