Mai risultato positivo al tampone Covid 19 fu più opportuno di quello che ieri ha potuto far dire a Washington “è in forse il viaggio di Nancy Pelosi risultata infetta dal virus”. Un provvidenziale Covid test ha spento (per ora) la miccia che in poche ore ha mandato in corto circuito le relazioni tra Stati uniti e Cina. In mattinata da Taiwan e dal Giappone è uscita la notizia di una visita della speaker democratica del Congresso il 10 aprile all’isola che Pechino considera sua.

L’unico precedente di una visita di questo livello è del 1997. Pechino ha risposto all’annuncio così: se Nancy Pelosi, visiterà Taipei “la Cina adotterà misure risolute e energiche per difendere fermamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale e gli Stati Uniti dovranno essere pienamente responsabili di tutte le conseguenze”. La minaccia è stata burocraticamente affidata a un portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian. Pelosi aveva originariamente programmato di visitare la Corea del Sud dopo il Giappone, ma i piani sarebbero cambiati proprio a favore di Taipei perché l’invasione russa dell’Ucraina ha acceso i riflettori sulla questione sempre aperta dello Stretto di Taiwan. Il 10 aprile non è nemmeno una data qualunque. Il 10 aprile di 43 anni fa il presidente Jimmy Carter firmò il Taiwan Relations Act, la normativa che regola il sostegno di Washington a favore dell’isola che Pechino considera parte inalienabile del suo territorio.

La pratica seguita negli ultimi anni dalle delegazioni statunitensi è stata quella di evitare annunci pubblici in caso di missioni verso l’isola fino al giorno del loro arrivo al fine di ridurre le proteste cinesi. Negli ultimi mesi tra Pechino e Washington su Taiwan sono volate dichiarazioni molto tese. Al segretario di Stato Antony Blinken Pechino ha chiesto di spiegare bene a Biden di “non inviare segnali sbagliati”. Il capo della diplomazia americana ha risposto che gli Stati Uniti si oppongono alle azioni “unilaterali” della Cina sull’isola e a qualsiasi cambiamento dello status quo a Taiwan. E che saranno “risoluti” nel rendere l’isola in grado di difendersi. Il problema è che la volontà imperiale di Pechino di controllare ciò che transita nel Mar della Cina è una razionalissima necessità della volontà di potenza del regime cinese. E la determinazione di Washington ad impedirlo ha ragioni uguali e contrarie. E con l’invasione russa dell’Ucraina in corso, uno scontro americano con Pechino su Taiwan potrebbe essere fatale. Sergej Lavrov, il ministro degli esteri di Putin, che ha detto recentemente di considerare Taiwan parte della Repubblica popolare cinese. E l’intesa russo-cinese celebrata in un documento programmatico il 4 febbraio scorso firmata a Pechino da Putin e Xi Jinping promette alla Cina la copertura russa.

Taiwan, isola che si vuole indipendente ma di cui la Cina rivendica il possesso, galleggia in uno spazio strategico tra Mar cinese meridionale e Mar cinese orientale. Quell’isola serve a Xi Jinping a controllare l’accesso agli oceani. Da lì passa il novanta per cento del commercio marittimo. La rotta principale collega, attraverso stretti indocinesi e indonesiani, i porti della Cina orientale al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa. E conseguentemente all’’America del nord e all’America del sud.
Formalmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina, un resto dello Stato fondato nel 1912 sulle ceneri dell’impero Qing. Su quell’isola si rifugiò Chiang Kai-shek, capo nazionalista della Repubblica di Cina, dopo aver perso contro Mao. Instaurò sull’isola una dittatura. Pechino la considera da sempre sua. Ma Taiwan, ora grosso modo democratica, si considera comunque indipendente. Perché finora il caso è sempre rientrato tra le crisi che covano sotto la cenere senza però ardere a fiamme alte?

Perché i capi politici di Taiwan hanno accettato, per non rovinarsi i rapporti con gli americani, di non squarciare il velo d’ipocrisia con cui Pechino e Washington tengono coperta la questione Taiwan. Questo velo ha un nome, ha una formuletta: “Cina unica”. Una formula vuota di significato reale, ma densa di accordi a tacere per convenienza, con cui le due diplomazie delle superpotenze hanno evitato finora di confliggere evitando di affrontare il dossier. Un comodo tabù che ha fatto comodo a tutti, compresi i taiwanesi. Se una qualsiasi mossa solleva il velo, Pechino non ha ragione di non esibire la sua volontà di prendersi Taiwan perché non ha ragione di tacere sulla volontà di prendersi gli oceani. E proclama quindi quando può che entro il 2049, anniversario di regime, l’isola tornerà sotto completo controllo cinese. Washington non può lasciarla fare se non vuole terminare di declinare completamente come potenza globale.

Pechino non dichiara guerra, ma provoca, polemizza e rende più forti la sua Marina e la sua Aeronautica. Gli Stati uniti si schierano a difesa dell’isola e lavorano per tenersi cari tutti i Paesi dell’area indopacifica così da poter minacciare di chiudere le rotte in caso di conflitto con la Cina. Pechino conta solo su se stessa. Perché certo la Corea del nord e il Pakistan, suoi alleati, non sono sostegni favolosi. Pechino, al di là dei documenti programmatici bilaterali, non si può fidare della Russia di Putin che, a sua volta, teme l’espansionismo cinese perché si tratta sempre di un impero piazzato sotto casa sua.