Il 29 gennaio si è compiuto un anno dalla rielezione di Sergio Mattarella, entrato poi in carica col giuramento il 3 febbraio, che ex post viene valutata sostanzialmente da tutti come un’ottima scelta. Indubbiamente la Presidenza Mattarella è stata anche e soprattutto d’aiuto al mantenimento di una linea ampiamente condivisa di orientamento atlantico ed europeista rispetto al conflitto ucraino, la principale e più delicata sfida del periodo. È però importante richiamare le condizioni iniziali di un esito che non appariva scontato o quanto meno così veloce.

Ricordiamoci anzitutto la principale differenza certificata rispetto alla rielezione di Napolitano: mentre allora a chiedere la disponibilità del Presidente uscente furono ad uno ad uno i segretari dei principali partiti, per Mattarella vi è stata un’udienza collettiva del capo dello Stato ai capigruppo dell’ampia maggioranza che sosteneva il governo Draghi. Questa diversa forma rivela appunto la differenza sostanziale: mentre la rielezione di Napolitano era dovuta ad un accordo tra i vertici di partito, in questo caso si è trattato di un movimento parlamentare trasversale a cui i leader hanno finito ex post per dare il loro assenso. Nel caso della rielezione di Napolitano quella scelta finiva obiettivamente con l’anticipare la scelta delle medesime forze politiche (centrosinistra e centrodestra) di riprendere con la nascita del governo Letta la confusa formazione dell’esecutivo successivo alle elezioni del 2013, sospesa con le dimissioni del Presidente.

I vertici delle forze politiche dopo le turbolenze dei primi scrutini, e la caduta delle candidature Marini e Prodi, avevano quindi ripreso le redini della situazione. Viceversa la scadenza del mandato di Mattarella cadeva in un contesto di maggiore confusione del sistema dei partiti, che aveva convenuto alcuni mesi prima sulla formazione di un Governo di derivazione presidenziale, l’esecutivo Draghi. Pertanto l’elezione di un presidente della Repubblica finiva col coinvolgere le sorti del “Governo del Presidente”. Nelle forze politiche, in particolare in quelle di centrodestra, erano già affiorati dei dubbi sulla opportunità di proseguire nell’esperienza giacché Lega e Forza Italia stavano perdendo consensi a favore di Fratelli d’Italia, che monopolizzava l’opposizione.

Si fronteggiavano quindi da una parte il partito trasversale della continuità con l’esperienza di Governo con lo schieramento opposto che avrebbe voluto interromperla, andando prima possibile ad elezioni anticipate. Questo secondo gruppo aveva l’esigenza di destabilizzare il quadro politico con la scelta di un candidato terzo rispetto al presidente Mattarella da cui era derivato il Governo ed anche rispetto al presidente del Consiglio Draghi. Non rieleggere Mattarella e non scegliere Draghi sarebbe stato come approvare una mozione di sfiducia implicita a quest’ultimo. In questa ricerca di candidati terzi spiccava soprattutto il leader della Lega Salvini. Nel partito della continuità, costituito anzitutto da deputati del Pd e del M5s, molto diversi tra loro anche rispetto alle appartenenze nei rispettivi partiti, prevalse già da alcune settimane prima la scelta di confermare Mattarella, pur essendo notoriamente il capo dello Stato uscente sostenitore dell’elezione del presidente del Consiglio Draghi.

Perché questa scelta? Perché l’opzione Draghi avrebbe avuto bisogno di una quadratura del cerchio sull’esecutivo successivo, quasi impossibile da realizzare: si sarebbe dovuto individuare da parte dello stesso Draghi e delle forze politiche che lo supportavano (non tutte però convinte della continuità) di un presidente del Consiglio in continuità con Draghi, ma di un’autorevolezza comparabile alla sua, non un mero esecutore di Draghi. Viceversa la teoria di alcuni esponenti politici di stabilizzare alla francese la figura di un capo dello Stato governante, di cui il presidente del Consiglio sarebbe stato esecutore, con quello che era stato teorizzato come un benefico “semipresidenzialismo di fatto” si rivelò, al di là delle intenzioni, un boomerang perché avrebbe comportato una forzatura istituzionale.

Un conto è infatti eleggere un Presidente garante sapendo che al momento opportuno egli può funzionare da motore di riserva, aprendo la fisarmonica dei poteri presidenziali, altro è partire dall’idea di eleggere qualcuno inteso ab initio come il vero centro politico del sistema.
Per queste ragioni il partito trasversale della continuità, nonostante le esitazioni dei leader politici, preoccupati soprattutto di non essere esclusi dalla scelta finale (tranne Meloni che anche in questo caso poteva rivendicare il monopolio dell’opposizione), una volta scelta senza esitazioni la candidatura Mattarella, è agevolmente riuscito a programmare la crescita dei voti alla candidatura nelle prime votazioni, con un modello basato sul presidio fisico del Transatlantico di Montecitorio e della ricerca di consensi per cerchi concentrici. Ciò nella convinzione che il Presidente uscente, una volta rilevata l’impossibilità obiettiva di successo di Draghi, avrebbe finito per rinunciare alla propria indisponibilità, essendo quella l’unica opzione possibile per garantire la continuità dell’esecutivo.

Anche se gli sforzi di destabilizzazione per individuare candidature terze proseguirono fino alla sera precedente allo scrutinio e qualcuna anche fino alla mattina del 29, in realtà si trattava solo di giri a vuoto senza nessun impatto reale sui grandi elettori, dopo lo scrutinio chiave della mattina del 28. Avendo voluto a tutti i costi la presidente del Senato Casellati contarsi sulla propria candidatura, in uno scrutinio in cui si presentarono quasi solo gli elettori del centrodestra, l’emergere di trentasei voti a Mattarella sicuramente di quello schieramento faceva rilevare che sommati a Pd e M5s c’era già una maggioranza per la rielezione, a cui i leader del centrodestra sarebbero stati a quel punto costretti ad allinearsi.

A quell’esito si sarebbe quasi sicuramente giunti lo stesso, ma l’insistenza della Casellati ebbe il merito involontario di accelerarlo. Quindi dobbiamo a un movimento parlamentare trasversale una scelta di feconda continuità, anche se non proseguita fino alla scadenza naturale della legislatura. Ma resta a disposizione delle istituzioni repubblicane, per altri sei anni, un eccellente presidente che ha mostrato di saper interpretare il proprio ruolo come meglio non si potrebbe.