Tutto si può dire, meno che l’aggressione russa dell’Ucraina non abbia infuocato gli animi e generato accesissime polemiche nel dibattito pubblico. Sicuramente ciò è accaduto in Italia; più che altrove. Le contrapposizioni hanno esasperato gli animi e provocato estremismi verbali oltre che gesti clamorosi. Ciò che colpisce non è solo la veemenza delle polemiche, ma anche la circostanza che lo scontro sembra non aver risparmiato nessuno: prominenti giornalisti e opinionisti, intellettuali e anchormen (o anchorwomen) enfaticamente e risolutamente schierati. E, forse per la prima volta da tempo, le polemiche hanno rotto fronti culturali e politici da lunghissimo tempo consolidati, creando cesure inattese. A sinistra come a destra.

Le accuse esplicite di “burattino di Biden” all’indirizzo del presidente Draghi o di “putinista” nei confronti di chi è critico verso le scelte politiche del governo, dell’Unione europea e della Nato, non sono state proferite solo da qualche frangia estremista, ma anche nei cosiddetti “salotti buoni” della televisione o del giornalismo, persino da chi, fino a ieri, per stile o per metodo (penso ad alcuni studiosi), era ritenuto esponente di un pensiero liberale o, persino, libertario; per costituzione, cioè, moderato e coltivatore del dubbio. E, molto probabilmente, il solo fatto di affiancare, qui, tali atteggiamenti dell’una parte e dell’altra, suscita già l’ira di esponenti di entrambi i fronti, scandalizzati per il solo fatto di essere accomunati agli “avversari”, anche se solo da questo specifico punto di vista.

Con una battuta si potrebbe dire “è la guerra bellezza”; che non consente vie di mezzo: o stai di qua o stai di là. E con altrettanto cinismo si potrebbe considerare che si tratta della ferrea legge della comunicazione, in cui vince la nettezza dell’estremizzazione, la sicumera sprezzante di chi ostenta la propria verità. Che quanto più è tetragona, tanto più fa audience e spettacolo. In questa guerra sulla guerra ogni mezzo è lecito, perché in gioco c’è niente po’ po’ di meno che la verità di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Non c’è bisogno di scomodare Platone e Popper, Max Weber e Hannah Arendt per riconoscere che, dietro a questo scenario, anche nella sua salsa italiana, si gioca l’eterno tema del rapporto tra politica e verità. Basta ricordare quanto tormentato sia questo rapporto e quanto i classici del pensiero liberal-democratico abbiamo avvertito del rischio di derive fondamentaliste e autoritarie in certi modi di risolvere quell’angoscioso interrogativo. Oggi potremmo aggiungere che, nelle società contemporanee, a quel rischio si aggiunge quello del populismo, inteso come fenomeno fondato sulla manipolazione dell’opinione pubblica attraverso lo strumento della semplificazione demagogica, dell’ostentazione di convinzioni spacciate come verità auto-evidenti, delle interpretazioni mono-causali e della cultura del complotto e del sospetto, come sostituti moderni dell’antico capro espiatorio.

Fondamentalismo, autoritarismo, totalitarismo e populismo hanno innanzitutto questo in comune: l’espulsione della complessità e del dubbio dal dibattito pubblico. Conosco l’obiezione: ci sono momenti in cui la politica impone decisioni. Non può crogiolarsi nel dubbio. La politica deve semplificare la complessità. Altrimenti si risolve nell’inazione. Niente di più vero. E i meccanismi democratici devono servire per legittimare le decisioni, non per evitarle. Anzi, a costo di apparire impopolare, dirò che non è nella logica di una politica responsabile e autorevole che la decisione pubblica debba sempre inseguire l’umore dei sondaggi. La politica, finché rimane vincolata al giudizio degli elettori in occasione del voto (l’unica sede in cui l’opinione dei cittadini non può essere ignorata) può, e a volte deve, essere impopolare, perché essa deve pensare agli interessi del medio e lungo periodo, non alle emozioni del momento.

La questione che, però, rimane aperta, anche di fronte a una politica legittimamente decisionista, è come dev’essere trattata l’arena della discussione. Come preservarne il pluralismo per non essiccare la linfa vitale della complessità e del dubbio. Per non varcare, cioè, il confine che ci fa transitare da una società aperta alla asfissia del pensiero unico o del populismo. E, in ultima istanza, dello stato etico. Questa sfida va ben al di là del dibattito sulla guerra e investe, in generale, l’orizzonte delle società liberal-democratiche nell’era contemporanea. E di questo è fondamentale discutere. Perché costituisce, appunto, la principale sfida delle democrazie liberali di oggi. Se consentiamo, invece, che si consolidi l’equazione che la decisione politica si identifica con la verità, finiremo prima o poi per abbattere i bastioni che sorreggono le fondamenta del nostro vivere civile. E il fatto che ci siano autocrazie, come la Russia, dove nulla di questi valori è praticato, costituisce un motivo in più per tenersene alla lontana.

In un’epoca di fake news, di inflazione informativa, di bolle conoscitive, dare una risposta alla domanda di come si protegge uno spazio pluralista, per coltivare il dubbio e la complessità, non è affatto semplice. Ma la demonizzazione dell’avversario o l’invocazione di verità auto-evidenti, l’invocazione dell’interesse pubblico per valutare quali pensieri possano avere cittadinanza e quali no, immaginare che ci sia qualcuno legittimato a valutare le opinioni (non i fatti, quando certi e inconfutabili, che le sorreggono), che oggettivamente si possa distinguere tra opinioni degne o indegne… tutto questo, non può essere la risposta al problema. Nemmeno in tempo di guerra.
Ogni soluzione a questa domanda, incombente sulle società liberal-democratiche contemporanee, prevede dei rischi, ma in attesa di trovare delle soluzioni, che sono molto di là da venire, è necessario resistere alla tentazione di percorrere facili scorciatoie. Dovendo scegliere, meglio il rischio di una fake news in più, che può e deve essere demolita nel dibattito pubblico, che quello di un’opinione in meno. Del resto, basta guardare i contenuti e le modalità dello stesso dibattito sulla guerra, negli Stati Uniti o in altri paesi europei, per comprendere come questi valori possano continuare a essere coltivati anche là dove le scelte politiche sono nette e risolute. Dare cittadinanza a opinioni sgradite e persino errate è il modo migliore per dimostrare che si hanno argomenti per confutarle e che non se ne ha paura. Questo, in ultima istanza, significa avere fiducia nella democrazia liberale e combattere per essa.