Cinquestellopoli, come questo giornale ha definito il caso dei rapporti tra una multinazionale che vende sostanze cancerogene e la setta informatica insinuatasi nel potere italiano in sodalizio con il movimento di Beppe Grillo, fatica a far notizia presso i grandi mezzi di informazione. Non sorprende. L’accreditamento dei 5Stelle, infatti, sarebbe stato impossibile se i vaneggiamenti del comico genovese e il coro dei suoi sgherri fossero rimasti confinati nelle pur gremite piazze del vaffanculo; e se a issare al potere quella violenta compagnia di sfasciacarrozze non fossero intervenuti, in solerte unanimità, appunto i plenipotenziari della stampa coi fiocchi che contrapponevano alla putrescenza della politica tradizionale la freschezza magari un po’ ingenua e sgrammaticata ma dopotutto “onesta” di quel preteso spontaneismo anti-castale.

Serissimi articoloni spiegavano che già solo il proposito di sostituire una classe dirigente tanto impresentabile e ineluttabilmente corrotta costituiva un programma di grande angolatura politica, meritevole di voto neppure a naso turato, mentre le maratone televisive tenevano fissa la telecamera sui grillini che istigavano la gente perbene ad accerchiare i palazzi del potere gridando ai parlamentari di uscire con le mani alzate. Il tutto, puntualmente giustificato dall’argomento classico nella cialtroneria delle sedizioni antidemocratiche, e cioè che “dopotutto è comprensibile, visto che ‘la politica’ non dà risposte”.

Se il caso di Cinquestellopoli non è diventato lo scandalo del potere italiano è esattamente perché discuterne metterebbe in discussione molto più che la vicenda particolare, che altrimenti si ridurrebbe a una cosa passabilmente inevitabile come il mariuolo che si infila nelle liste, il legno storto di un’esperienza politica altrimenti incensurabile: piuttosto, metterebbe in discussione la piega civile e culturale di un Paese in cui il sistema dell’informazione e la libertà di stampa sono stati usati per educare la società a imbarbarirsi. E a compiacersene. Lo scandalo dei telegiornali adunati nell’attesa del “responso” di Rousseau e l’incredibile rassegna dei quotidiani che il giorno dopo si dedicavano a commentarlo, ben raffigurava la decomposizione del terreno civile su cui si è invigorita la malapianta grillina.

E se questa dà il frutto avvelenato di qualche operazione opaca è bene non parlarne perché mandare luce sulla diramazione rischia di illuminare il fusto intero: che non è più sano e meno infestante giusto perché nutrito dall’onestà di programma anziché dallo sterco del diavolo che remunera qualche compiacenza normativa.

Occorrerebbe tenere sempre a mente che la “banda di ladri” della prima Repubblica è stata mandata a casa dagli stessi che poi hanno mandato al potere la banda degli onesti: e l’atteggiamento irresponsabile che vede corruzione dappertutto quando bisogna fare piazza pulita è lo stesso che la espelle anche solo dalle ipotesi quando c’è rischio di correità.