«Il carcere non è adatto a tutti i minori, andrebbe rivisto il codice e migliorata la messa alla prova. Il vero problema restano i territori: esiste solo lo Stato repressivo, manca quello preventivo». La procuratrice per i minori Maria De Luzenberger sulla criminalità minorile di Napoli.

Dottoressa, ci delinea un quadro più preciso dei giovani che entrano nelle maglie della giustizia prima ancora di aver compiuto diciotto anni?
«Sono anni che i numeri sono in calo, cioè sono sempre meno i minori che commettono reati e questo è un dato che si riscontra anche in altre procure. A Napoli abbiamo numeri più bassi di quelli di Milano. C’è da dire, però, che a Napoli i reati sono più gravi. La criminalità napoletana rispetto a quella di altre realtà italiane è connotata da una decisa superiore gravità dei fatti».

Reati e minori a confronto: qual è la differenza tra Napoli e le altre città italiane?
«La mia analisi dei fatti è che purtroppo ci sono dei dati culturali molto forti e diffusi. C’è una cultura che prende molto dalle organizzazioni criminali e le supera. Insomma, ci sono tanti giovani che vivono in quell’humus anche se poi non fanno veramente parte delle organizzazioni criminali però hanno quei valori. Un’analisi fattuale ci porta a dire che al Nord e in altre regioni italiane esiste una criminalità costituita per la maggior parte da cittadini stranieri. A Napoli, invece, i ragazzi che commettono reati sono tutti minori napoletani e quasi tutti provengono dalle periferie della città, da zone altamente degradate. Si tratta di ragazzi che hanno alle spalle percorsi scolastici interrotti, provengono da famiglie fragili. Posso affermare che quelli che crescono in determinate realtà, che non seguono percorsi scolastici e che non hanno famiglie forti ma anzi vivono con genitori che spesso si trovano in carcere, sono quelli che ci ritroviamo nelle aule giudiziarie».

Dicevamo, meno reati ma più gravi e questo deriva anche dall’uso di armi. A tredici anni hanno già un coltello e, purtroppo, lo usano. Come spiega la diffusione di armi tra ragazzi così piccoli?
«Sì, purtroppo è così. L’uso del coltello fa parte di questa cultura violenta di cui parlavamo prima, la stessa per la quale tutto sommato “non fa niente” o “è normale girare con un coltellino in tasca”. Non solo. Riscontriamo anche la disponibilità diffusa di armi da fuoco tra i minori e questo è un dato strettamente collegato alle organizzazioni criminali».

Negli ultimi anni sono aumentati i reati verso le persone, non collegati a rapine o furti. È così? C’è una violenza sempre più incontrollabile e apparentemente inspiegabile?
«Sì. Senz’altro. Io sono alla procura per i minori da sedici anni e posso dirle che è cambiato tutto. Prima c’erano solo piccoli furti e ricettazione, ora dai furti si è passati alle rapine, rapine sempre più gravi e violente e talmente organizzate che è chiaro che dietro ci sono organizzazioni criminali e non sono più su iniziativa di un singolo. Abbiamo appurato che alcuni minori commettono più rapine in pochi giorni, con armi vere e questo ci fa pensare che siano organizzati. Senz’altro è anche aumentata la violenza verso le persone».

Dottoressa, secondo le statistiche il 63% dei minori dopo essere stato in carcere, ha una ricaduta criminale. Fenomeno diffuso anche tra chi è stato raggiunto dal provvedimento di messa alla prova. Cos’è che non funziona, perché tornano a delinquere?
«A prescindere dai dati, mi sento di difendere l’istituto della messa alla prova. È un istituto che va assolutamente difeso, consente ai ragazzi di fare dei percorsi importanti, di tirarsi fuori dalla strada del crimine. Il problema, però, non è tanto la messa alla prova ma quanto investiamo in questi percorsi».

Cioè?
«Voglio dire che la messa alla prova difficilmente è costituita da attività che siano veramente utili e che li impegnino in percorsi decisivi. Bisognerebbe impegnarli di più, avere la possibilità di inserirli in realtà che possano davvero fungere da esempio. Qui, purtroppo, la Regione e il Comune sono poveri di queste realtà. Per esempio, con la messa alla prova, si richiede il volontariato che è un elemento importante per il cambiamento ma anche in questo caso non sempre si riescono a reperire attività qualificanti che impegnino davvero i minori. A Napoli abbiamo ancora un problema antichissimo che è quello dei bambini coinvolti nel traffico di stupefacenti, cioè li utilizzano per trasportare la droga o attività simili. Ma non mi pare che ci sia stato un impegno molto forte per contrastare questo fenomeno, così come non c’è stato un impegno serio e costante per combattere la dispersione scolastica».

Lei cosa propone?
«Bisogna individuare un meccanismo celere perché spesso si interviene quando l’anno scolastico è praticamente finito. Se i ragazzi non frequentano la scuola media e iniziano a perdere uno o due anni, non si recuperano più. In questi casi ci vorrebbe un intervento immediato. E parlo anche di sostegno alle famiglie, serve un intervento che le sostenga e non che le punisca. Un intervento dei servizi sociali che devono identificare il problema, capire perché un bambino non va a scuola e intervenire con soluzioni veloci e di sostegno. Lo Stato deve innanzitutto sostenere le famiglie in difficoltà e poi pensare all’aspetto punitivo».

Eppure, recentemente più di un suo collega ha affermato che in alcune zone della città lo Stato è totalmente assente. Cosa ne pensa?
«È così. Lo Stato non c’è a Caivano, non c’è ad Afragola e in altre zone. Ci sono posti del tutto abbandonati. Però si deve operare una differenza: noi rappresentiamo lo Stato repressivo e ci siamo, ma ci sarebbe tutta un’altra parte di Stato che dovrebbe intervenire e non lo fa. Manca quella parte di Stato che dovrebbe fare prevenzione. Mancano i sostegni, mancano i servizi sociali, le scuole adeguate, i servizi per la famiglia, mancano gli asili nido. Manca tutto l’aspetto del sostegno. Mancano tutti i servizi che potrebbero aiutare a prevenire i reati tra i minori».

In conclusione, lei crede che il carcere minorile funzioni?
«Il carcere minorile, rispetto alle altre realtà carcerarie, rappresenta un modello. Forse è proprio la detenzione che non è adatta a tutti i ragazzi: non sempre va bene. Credo che bisognerebbe cambiare il codice e rivedere le pene per i minorenni, servono pene più graduate e diverse. Pene che vadano verso una giustizia riparativa. Poi, di fronte a reati gravi è necessario il carcere, ma per quelli gravi. Detto questo, anche in presenza di reati più gravi bisognerebbe graduare la pena e soprattutto preparare i ragazzi all’uscita. Perché il problema principale lo riscontriamo quando i ragazzi ritornano a casa. In carcere danno anche segni di cambiamento, ma quando rientrano sul territorio si ricomincia da capo perché non trovano alternative».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.