Giuro che quando ho letto la notizia sono caduto dalla sedia. Ho pensato ad uno scherzo. Tanto che ho cercato conferme perché non avevo trovato – con l’evidenza che meriterebbe – la notizia sui quotidiani. A che cosa mi riferisco? L’Avvocatura dello Stato ha chiesto il sequestro del saggio Il Sistema di Luca Palamara ed Alessandro Sallusti e il risarcimento di un milione di euro per il danno di immagine dello Stato. L’Avvocatura non agisce motu proprio; non ha l’obbligo di esercitare l’azione difensiva. Quindi da chi ha avuto l’incarico? Presumibilmente dal governo. Che ruolo hanno avuto Draghi e Cartabia?

Qualche parlamentare di buona volontà dovrebbe presentare al più presto un’interrogazione, perché non è consentito che finisca sotto silenzio un fatto tanto grave, una vera e propria intimidazione. Magari per persuadere con le cattive Luca Palamara a non cimentarsi con una seconda puntata. Nel libro un ex magistrato racconta la sua esperienza ai vertici del sistema delle correnti, cita episodi (che dichiara di poter documentare se necessario) e denuncia la gestione – nell’ambito dell’autonomia del Csm – delle nomine mediante una accurata lottizzazione che è sotto gli occhi di tutti, tanto che, anche a causa di queste pratiche, è aperto il problema di come riformare l’organo di Palazzo dei Marescialli proprio per eliminare quei vizi che Luca Palamara ha rivelato.

Un ex magistrato che ha fatto e disfatto carriere ai vertici dell’associazionismo giudiziario meriterà pure per le ammissioni e testimonianze un po’ di quel credito che viene riconosciuto, d’acchito, ai pentiti di mafia! Chiedere il sequestro di un libro – senza indicare questioni specifiche e senza dimostrare la falsità di certe ricostruzioni che vi sono contenute – ha un solo significato: è proibito scrivere sulla magistratura; guai a parlare male del nostro Garibaldi collettivo. Ma l’aspetto più farisaico e disonesto sta nelle motivazioni della richiesta del sequestro e del risarcimento del danno: la tutela dell’immagine dello Stato. In sostanza, non si deve far sapere in giro che nell’ordine giudiziario si combinano giochi di potere e si fa politica attraverso le sentenze.

Ma – mi chiedo – non è il Parlamento la più importante istituzione democratica della Repubblica, che viene al primo posto nella stessa Costituzione? Insultare, dileggiare, additare al pubblico ludibrio i parlamentari è divenuto – da La casta in poi – persino un genere letterario nel quale si sono cimentate le grandi (e piccole) firme del giornalismo, sfornando best seller che suonavano offesa già nel titolo. E la gogna non aveva per oggetto malversazioni, corruttele o violazioni di legge. No. Si sono prese di mira le indennità, i vitalizi, i prezzi delle buvette e tutto quanto potesse incrementare l’invidia sociale e rappresentare gli eletti del popolo come una massa di scrocconi propensi a condurre “la bella vita” piuttosto che occuparsi monasticamente della cosa pubblica.

Poi è stata la volta delle “spese pazze” dei consiglieri regionali, con veline trasmesse dalle procure ai loro pennivendoli dove si raccontava di scontrini della toilette, acquisto di mutande verdi, residenze truffaldine, uso di denaro pubblico per partecipare ad iniziative di partito, feste di carnevale e quant’altro. E quando si è raccontato al mondo che Roma, la città eterna, era inquinata dalla Mafia? Quale discredito ricade sull’immagine di una Stato da un’inchiesta denominata “Mafia Capitale”? Anche a costo di ingigantire i reati e i protagonisti di quelle vicende, elevando (“il mondo di mezzo”) una congrega di mazzettari e di rubagalline a grandi capi di Cosa nostra. Su “Mafia Capitale” quando ormai era stato chiarito, a livello giudiziario, che la mafia non c’entrava nulla, è stato prodotto persino uno sceneggiato televisivo che nessuno chiese di sequestrare. E non si è prodotto – dopo il processo a Giulio Andreotti – un danno all’immagine dello Stato grazie alla montatura della “trattativa” con la mafia? Ricordiamocelo: è stato chiamato come testimone dell’inchiesta persino un presidente della Repubblica, mentre un valoroso servitore dello Stato, come il generale Mario Mori, è ancora alle prese col suo calvario giudiziario.

Non parliamo poi del tafazzismo italiota in economia, chiarendo bene un punto in premessa: chi scrive non sostiene – al pari dell’Avvocatura a proposito del libro Il Sistema – che vi sia una ”ragion di Stato” che induca a chiudere gli occhi davanti alle malefatte e agli intrighi dei cosiddetti poteri forti, perché – come si diceva un tempo – è bene lavare i panni sporchi in famiglia. Un’inchiesta giudiziaria o giornalistica che scopre un affare losco e lo denuncia è il sale della democrazia. Ma quando si arriva a falsificare la realtà, a non tener conto delle prove, a costruire dei teoremi al solo scopo di creare un “caso”, si producono davvero e apposta dei danni all’immagine del Paese.

Si pensi all’ex Ilva. Non esprime una bella immagine di sé un sistema Italia che dichiara guerra alla più grande acciaieria d’Europa (le accuse della magistratura tarantina sono state smentite da sentenze del Tribunale di Milano per quanto riguarda sia il reato di bancarotta dei fratelli Riva, sia l’attinenza dello stabilimento agli standard vigenti in materia ambientale). E che spettacolo fornisce un combinato mediatico-giudiziario che ha perseguitato una delle più importanti multinazionali dell’energia – l’Eni – accusando, in pratica senza prove né indizi, i suoi amministratori di corruzione a fini petroliferi delle autorità dei Paesi produttori? Abbiamo visto troppi film americani nei quali un pugno di volenterosi vincono la loro battaglia contro la multinazionale di turno, per non apprezzare una giustizia che non guarda in faccia a nessuno.

Ma quando in un Paese, non protesta, come a Cuba, un popolo affamato e in balia del contagio, ma scendono in piazza i sindaci chiedendo alle procure di lasciarli lavorare, viene da chiedersi che cosa pensano di noi all’estero. Certo, sarebbe singolare se il saggio Il Sistema venisse condannato al rogo come accadde al film Ultimo tango a Parigi. Oggi viene proiettato persino nella sale parrocchiali.