Ci sono troppe cose che non sappiamo sull’Ucraina e le radici di questa guerra. Per esempio, nessuno spiega come mai la maggior parte dei cittadini ucraini di lingua madre russa, che parlano scrivono e pensano in russo, anziché accogliere come liberatori i militari della operazione speciale iniziate il 24 Febbraio, insorgano in armi formando gruppi di guerriglia che combattono soldati della loro stessa madrelingua con cui hanno lo stesso rapporto furioso e frontalmente nemico che ebbero i coloni americani con i soldati britannici 200 anni fa. Ricordate che cosa è stato detto?

Che l’Ucraina non esiste, che le aree russofone sono state schiacciate dal governo di Kiev con l’uso dei nazisti del battaglione Azov da cui nascerebbe la comprensibile legittimazione di Mosca a liberarle e ricondurli all’interno della casa madre linguistica e culturale russa. A spiegare come stanno realmente le cose provvede un l’importante e ben documentato saggio di Foreign Affairs, frutto di una lunga analisi sul campo. E allora si scopre qualcosa che quasi tutti ignoriamo. L’Ucraina diventò un paese indipendente nel 1991, una terra distrutta dalle sopraffazioni degli oligarchi connessi con quelli di Mosca: era un paese devastato dalla corruzione, impoverito delle sue risorse, il più desolato d’Europa sotto la dittatura di una marionetta di Putin, Viktor Yanukovic, il quale si comportava esattamente come si comporta oggi il dittatore bielorusso Lukashenko agli ordini di Mosca.

Essendo l’Ucraina un paese confine dell’Europa occidentale i suoi giovani si affezionarono follemente all’Unione europea. Nel 2014, tradendo le promesse fatte agli ucraini, Viktor Yanukovic si presentò in Parlamento e annunciò di avere rigettato la richiesta di entrare nell’Unione Europea e di aver scelto la comunità degli Stati alleati di Mosca. Ciò provocò una lunga rivolta nelle strade di tutta l’Ucraina e non soltanto di Kiev, che dopo mesi di manifestazioni ebbero successo e il dittatore scappò, intercettato da una telecamera a raggi infrarossi mentre sgattaiolava dal suo palazzo per prendere un elicottero che lo portò a Mosca dove ancora si trova. La “rivoluzione arancione” non ebbe dunque come unico scenario piazza Maidan di Kiev, che offrì tuttavia alle telecamere di tutto il mondo i cadaveri di adolescenti morti nelle insanguinate bandiere dell’Unione Europea. La verità più ampia che emerge dall’esame di tutte le cronache è che quelle manifestazioni, conclusesi con la cacciata di Yanukovic, si svolsero in tutte le città dell’Ucraina, comprese quelle di lingua russa, in cui la rivolta contro il dittatore coincise con la rivolta contro il sistema corrotto degli oligarchi ucraini e russi.

Quella rivolta prese poi il nome di Rivoluzione per la Dignità, che dilagò in tutto il Paese e in ogni villaggio, sia di discendenza ucraina che russa. Paradossalmente, Kiev e il suo Presidente non erano il centro di questa rivoluzione che ebbe un carattere diffuso e periferico, popolare e civile, che portò all’elezione di una quantità di giovani sindaci che condividevano, indipendentemente dalla madrelingua, l’ideale di una rigenerazione civile attraverso comitati che appoggiarono dirigenti scelti dal basso, sostenuti da un Consiglio comunale eletto dal popolo. Fu l’inizio della grande pulizia morale del 2014: si cercò di espellere gli oligarchi affaristi e di collegare in maniera irreversibile una generazione di giovani sindaci, consiglieri comunali e patrioti di una patria immaginata sull’idea del modello europeo occidentale. Una spinta diffusa e collettiva che si esprimeva in tutte le lingue alimentando un orgoglio nuovo legato all’idea di una democrazia diffusa non dipendente da Kiev. Forse è questo che i russi non avevano capito, o forse l’avevano capito talmente bene da temerne il contagio sul loro sistema verticistico russo imperiale dittatoriale e centralizzato.

I russi intervennero subito militarmente per conquistare la Crimea, eterno e controverso oggetto del desiderio di Mosca, come dimostra il fatto che già ai tempi di Cavour per la prima volta un distaccamento militare italiano si trovò a combattere contro l’invasione russa. Putin inviò anche un esercito fantasma senza mostrine né uniformi di mercenari che introdussero armi pesanti con cui spinsero per una secessione dei russofoni del Donbass e nelle cosiddette repubbliche autoproclamate. Quell’azione portò a reazioni violentissime da parte del governo di Kiev contro i secessionisti. Ma il punto politico nuovo e sotto i nostri occhi è che i russi – i quali avrebbero dovuto conquistare il Donbass sommersi dai fiori e dai baci si trovano impantanati in una battaglia d’artiglierie, in cui avanzano grazie a un volume di fuoco venti volte superiore a quello ucraino in cui combattono i soldati ucraini di lingua e tradizione russa. I russi quando prendono una città ucraina, per prima cosa chiedono al suo sindaco di schierarsi con loro. Ma i sindaci quasi sempre resistono sicché vengono quasi sempre arrestati, rapiti e in molti casi assassinati. Quando i russi hanno preso Melitopol, la più grande città russofona in cui i militari di Mosca si attendevano di entrare fra due ali di folla plaudente, furono presi a fucilate dai partigiani.

Per far cessare la rivolta, il comando militare russo si rivolse al sindaco russofono Ivan Fedorov affinché si dichiarasse dalla loro parte, ma quello rifiutò e fu rapito sotto gli occhi di una telecamera indiscreta. Scoppiò subito una rivolta popolare che costrinse i russi a rilasciare Fedorov acclamato dalla folla russofona e dichiarato da Zelensky eroe e simbolo della resistenza. Non andò altrettanto bene alla sindaca russofona del villaggio di Motyzhyn poco lontana da Kiev, Olga Sukhenko che fu uccisa con la sua famiglia per essersi rifiutata di cooperare. Registrando questi clamorosi episodi di resistenza antirussa dei russofoni, Zelensky ne ha fatto un ovvio e anche legittimo strumento di propaganda, come prova della fedeltà a Kiev dell’Ucraina russofona. Ma in realtà ciò che stava accadendo (e che ancora accade in queste ore) è che città e villaggi non combattono per “fedeltà a Kiev” ma per fedeltà ai propri rappresentanti eletti – russi o ucraini non importa – secondo un criterio di democrazia di base simile a quella dei soviet del primo bolscevismo.

I russi, Putin in testa, avrebbero commesso l’errore di ritenere che l’appartenenza etnica sarebbe stata l’elemento vincente, mentre l’elemento unificante dei territori abitati da gente priva di alcun legame con l’ex Unione Sovietica, è il desiderio di far parte di una comunità desiderabile come l’Unione Europa di cui noi facciamo parte e senza alcuno slancio affettivo. Se questo fosse il racconto più fedele ai fatti la questione dell’impegno a mantener la resistenza ucraina assumerebbe un valore diverso dal semplice problema se “se mandare altre armi”. I combattenti ucraini se le aspettano, le armi, perché ritengono di aver superato il test, ma sono i primi a rendersi conto del fatto che si trovano in una situazione simile a quella del popolo curdo che, per quanto abbia dimostrato di combattere con valore, è poi stato il primo ad essere sacrificato al “big game” in cui gli ucraini sono appena entrati senza altra via d’uscita se non la resistenza ad oltranza che infastidisce molte coscienze europee.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.