L'intervista al giudice emerito della Corte Costituzionale
“Esiste una sola democrazia: quella rappresentativa”, parla Sabino Cassese

Oltre il referendum. Oltre le polemiche che hanno segnato il confronto, che certo non ha infiammato le piazze, tra i sostenitori del “Sì” e quelli del “No” sul taglio del numero dei parlamentari. La crisi della democrazia rappresentativa è così profonda che non potrà essere risolta da un voto referendario, qualunque sia l’esito. Guardare oltre, dunque. Il Riformista lo fa con un’autorità nel campo del diritto: il professor Sabino Cassese. Il suo percorso accademico è lungo e prestigioso e in alcuni momenti si è incontrato con importanti cariche istituzionali ricoperte dal professor Cassese: ministro della Funzione Pubblica nel governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, Giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al Master of Public Affairs dell’Institut d’Etudes Politiques di Parigi.
La crisi della democrazia parlamentare, su questo c’è una larga convergenza, non è riducibile a una questione numerica. Vi è un irrisolto problema di rappresentanza oltre che di efficienza, che, comunque vada andrà il voto del 20-21 settembre, resteranno sul tavolo. Come andrebbero affrontati?
Vi sono tre problemi tra di loro connessi. Il primo è la liquefazione dei partiti, che sono stati in passato lo strumento per veicolare la domanda popolare nelle istituzioni e per formare la classe politica. Il secondo è l’abbassamento del livello di quest’ultima, conseguente al primo fenomeno. Il terzo è la permanenza di una formula elettorale che non promuove la convergenza delle opinioni e delle scelte.
La nostra democrazia si è fondata sul sistema dei partiti. Ma cosa sono oggi i partiti politici e rispecchiano ancora il dettato costituzionale?
Sono giuridicamente associazioni, ma hanno perduto le caratteristiche associative. Sono divenuti organizzazione (episodica) del seguito elettorale di un leader o di un gruppo oligarchico. Di questa trasformazione sono causa molti fenomeni: il ripudio della partitocrazia, dopo il 1992 – 1994; la fine delle ideologie e l’incapacità dei leaders di prospettare programmi e un futuro; lo sfarinamento dell’elettorato, incapace di aggregarsi intorno a un programma. Quindi, i fattori riguardano sia l’offerta politica, sia la domanda politica
C’è chi, mi riferisco in particolare ai 5 Stelle, contrappone la democrazia diretta, quella dell’uno vale uno, alla democrazia parlamentare e dei partiti. È un conflitto irrisolvibile?
Nelle sperimentazioni tentate a livello nazionale (altro discorso può esser fatto nella dimensione regionale e locale), è risultato chiaro che l’unica forma possibile di democrazia è quella rappresentativa o indiretta. Questa può esser integrata, in particolari momenti, e con molti limiti, da istituti di democrazia diretta. Ma le formule della democrazia diretta sono – nonostante le apparenze – sempre molto equivoche. Prenda come esempio il prossimo referendum italiano sulla riduzione dei parlamentari ed elenchi tutti i motivi che vengono invocati per il si e per il no. Appare chiaro che l’elettorato reinterpreta la domanda, anche se molto semplice, e che, quindi, quello che appare un quesito chiaro si trasforma in una molteplicità di quesiti, che poi vincitori e vinti reinterpreteranno a loro volta in molti modi.
Uno Stato di diritto si regge sull’equilibrio dei poteri: quello rappresentativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Non ritiene che negli ultimi trent’anni questo equilibrio si sia “squilibrato” a favore del potere giudiziario?
Questo è accaduto perché sono cadute le barriere. Il potere legislativo interferisce con quello esecutivo perché ormai le leggi sono tanto dettagliate da sostituirsi all’amministrazione. Il potere giudiziario si erge a decisore di ultima istanza su tutte le questioni. L’amministrazione sta sempre più stretta in mezzo.
C’è chi sostiene che sul piano politico e di governo, il grande problema dell’Italia non sta tanto in un deficit di leadership, quanto nell’assenza di pensiero, di visione. È così?
Le due cose vanno insieme, gli uomini e i progetti (preferisco questo termine a “visione”, perché ricordo la frase del cancelliere tedesco Helmut Schmidt: «chi ha grandi visioni dovrebbe andare dal dottore»). Mancano gli uni e gli altri. I progetti fanno un leader. Ma un leader elabora i progetti.
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