Benché impegnati nelle trattative per l’elezione del futuro presidente della Repubblica, i partiti continuano a guardare alle prossime eventuali elezioni (che si svolgeranno comunque al massimo tra 18 mesi) e a fare congetture – tattiche e strategiche – sui possibili risultati, sulle opportunità di incrementare i voti disponibili per ciascuno e, specialmente, sul numero di parlamentari che avrebbero a disposizione.

Secondo la stima resa nota da Ipsos (pubblicata il 31/12/21 sul Corriere della Sera, che, sulla base di 31.400 interviste, tramuta i voti in seggi, pur con tutte le incertezze dovute al fatto che, a tutt’oggi non è in corso una vera campagna elettorale, nel cui ambito le figure dei singoli candidati, evidentemente per ora non noti, possono acquistare un valore decisivo) in questo momento i tre partiti che compongono il centrodestra avrebbero la netta maggioranza dei parlamentari). Questo nell’ipotesi che le forze di centro (Azione, +Europa, Italia viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia si presentino in forma indipendente dalla due coalizioni maggiori o con una qualche aggregazione tra loro. Infatti, sulla base di questa simulazione, il centrosinistra otterrebbe una (peraltro esigua) maggioranza in parlamento (più alla Camera che al Senato) solo se riuscisse a unire in un’unica coalizione tutti (o quasi) i partiti che non fanno parte del centrodestra, comprese le forze di centro.

Una eventualità che appare però in questo momento relativamente poco realistica, dato che sia Renzi che Calenda hanno escluso, almeno sino ad oggi, di volersi aggregare in qualche modo ai 5 stelle (anche se, dal punto di vista della mera convenienza, la scelta di restare autonome implica per le forze dell’attuale centro una posizione di relativa marginalità in un futuro parlamento, mentre la aggregazione con il centrosinistra o con il centrodestra potrebbe permettere di contare di più in un possibile governo). La vittoria del centrodestra alle prossime elezioni (e la conseguente formazione di un governo di maggioranza) è dunque inevitabile? Non è detto, poiché, al di là delle dichiarazioni di facciata al termine delle riunioni conviviali indette da Berlusconi, i tre partiti che compongono la coalizione hanno in questo momento linee politiche non solo assai diverse (e questo è scontato in ogni alleanza) ma spesso inconciliabili tra loro. L’elemento di maggior differenziazione è legato all’atteggiamento verso l’Europa. Si passa infatti da una posizione nettamente favorevole alla Ue com’è quella di Forza Italia a una assai critica (e per certi versi addirittura “orbanista”) com’è quella di Fratelli d’Italia, a un insieme di visioni variegate e contrapposte, com’è quella che si registra spesso all’interno della Lega.

Proprio la collocazione della Lega rappresenta il quesito forse maggiore in vista delle prossime elezioni e, in particolare, alla tenuta dell’alleanza di centrodestra. Oggi nel Carroccio convivono infatti almeno due linee: quella che potremmo definire sommariamente “proeuropea” (alcuni l’anno definita “bavarese”, riferendosi alla situazione del centrodestra tedesco) propugnata da Giorgetti e da alcuni Governatori regionali e quella con vene più critiche verso l’Ue e talvolta di stampo populista spesso espressa da Salvini (In realtà le differenze tra i due leader non sono così lineari e nette, ma semplificarle ci serve a scopo espositivo). Anche questa commistione di posizioni diverse e talvolta contraddittorie ha portato nell’ultimo anno ad una notevole perdita di consensi per il Carroccio rispetto ai voti ottenuti alle europee (sempre secondo le stime Ipsos, la Lega avrebbe ceduto ben il 43,9% dei suffragi ottenuti in quella occasione) e, specialmente, ad una grande difficoltà ad attrarre consensi nuovi. Ne è prova un forte flusso di voti (virtuali, misurati dai sondaggi) in uscita, specie verso il partito di Giorgia Meloni, ma anche, seppur in misura minore, verso Forza Italia e l’astensione.

La composizione attuale del supporto elettorale per la Lega sembra suggerire che esista oggi al suo interno una tendenza forse più favorevole per le posizioni più “europeiste” espresse da Giorgetti. Se si osserva infatti la distribuzione territoriale del consenso attuale per il Carroccio, si può verificare la forte accentuazione dei voti al Nord (specie nel nordovest, ma anche nel nordest) e la presenza relativamente più scarsa al sud. Insomma, il progetto di “Lega Nazionale”, avanzato a suo tempo da Salvini pare essere riuscito solo in parte (anche se mettere insieme Nord e Sud resta la chiave principale per vincere le elezioni e governare il Paese: ma pochi ci sono riusciti). Ed è proprio al Nord, come mostrano altre ricerche, che la linea “europeista” appare giudicata più positivamente. Non è un caso, al riguardo, che, secondo le stime di popolarità dei leader recentemente calcolate da Demos, Salvini appaia come il leader meno apprezzato in assoluto. Naturalmente, una limitata popolarità non significa necessariamente una carenza di voti alle elezioni, anche se è più difficile raccogliere suffragi se si risulta “antipatici” a buona parte della popolazione. Ma, come si sa, Salvini è uomo molto capace e abile e potrebbe nei prossimi mesi recuperare la popolarità perduta.

La Lega dovrà comunque necessariamente optare per una posizione unica e coerente da tenere, pena, forse, un ulteriore proseguimento del trend di erosione dei voti. E dalle sue scelte dipenderà anche il futuro del centrodestra e la tenuta o meno della sua (precaria) unità interna. È interessante rilevare a questo riguardo un’altra ipotesi di posizionamento dei partiti, avanzata da Nando Pagnoncelli nel suo articolo a commento dei dati Ipsos. Egli suggerisce infatti la possibilità della formazione di una coalizione di centro che comprenda, oltre alle forze politiche già appartenenti a quell’area, anche Forza Italia (che si staccherebbe in questo caso dalla Lega e si avvicinerebbe agli altri partiti più “europeisti”). In questo caso, si assisterebbe a un pareggio in termini di seggi parlamentari tra le due restanti coalizioni (Fdi e Lega da un verso e centrosinistra dall’altro) e una posizione determinante del centro, che vedrebbe in particolare Forza Italia come attore politico centrale per la formazione di un governo. Il “vecchio” centro ritornerebbe dunque in questo specifico caso determinante, come accadeva spesso ai tempi della Prima Repubblica. E chissà, forse il sistema politico italiano ne trarrebbe un qualche beneficio.

In realtà gli scenari futuri sono per definizione imperscrutabili: ma occorre sottolineare che tutti questi calcoli e questi ragionamenti ipotizzano che si mantenga l’attuale sistema elettorale e, in particolare, la sua decisiva quota maggioritaria (la quale, come si sa, assegna solo un terzo circa dei seggi parlamentari, ma è determinante perché spinge i partiti ad allearsi nei collegi uninominali: ciò che porta i piccoli partiti del centro, nel caso corrano da soli, a rischiare di non vincerne che pochissimi o addirittura nessuno: ciò nonostante, se i partiti del centro riuscissero in qualche modo, malgrado i personalismi di alcuni dei loro leader, a mettersi insieme potrebbero avere un pacchetto di seggi grazie ai voti proporzionali ed avere un qualche peso nel prossimo parlamento). Molti partiti hanno messo in campo l’ipotesi che si possa mutare sistema elettorale. Benché improbabile, questa eventualità modificherebbe radicalmente tutti gli scenari ipotizzati sin qui.

Dopo gli anni del bipolarismo dominato e reso possibile non solo dal sistema elettorale, ma, in particolare, anche dalla presenza di leader riconosciuti dei due campi, Berlusconi e Prodi, le elezioni del 2018 hanno fatto emergere una Italia politica divisa in tre parti, con le difficoltà che il paese ha sperimentato e con il ricorso finale ad una figura prestigiosa, ma estranea al modo dei partiti. Oggi, il declino del Movimento di Grillo e la sua “parlamentarizzazione” possono far pensare a un ritorno possibile al precedente bipolarismo. Ma innanzitutto non ci sono leader come quelli che hanno caratterizzato la cosiddetta Seconda repubblica, e inoltre i due poli del potenziale bipolarismo sono deboli e divisi fra di loro e, con una eccezione, anche all’interno dei singoli partiti.

Il presidente Mattarella nel dare commiato ad un settennato esemplare ha invitato le forze politiche alla unità nazionale della quale egli è stato il garante. Ma la democrazia parlamentare vive anche di conflitti e di competizione. I prossimi mesi, a partire dagli esiti della scelta del suo successore, saranno il banco di prova della capacità dell’Italia di ridiventare una democrazia normale, che non ha bisogno di un “podestà” – il forestiero al quale si faceva ricorso quando i conflitti fra le fazioni delle città italiane del pre-Rinascimento paralizzavano la vita politica – per garantire il governo del paese e la sua appartenenza al gruppo dei paesi di testa dell’Unione Europea.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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