Non occorre spendere molte parole per ribadire senza ambiguità, che nella guerra in Ucraina la Russia di Putin è l’aggressore criminale e stragesta, e il popolo ucraino e il suo governo democraticamente eletto del premier Zelensky sono gli aggrediti e le vittime di un massacro senza pari in Occidente paragonabile solo a quello di Serajevo, sancito come crimine contro l’umanità. E non è necessario ripetere quanto ipocrita sia l’atteggiamento, diffuso in Italia tra gli intellettuali, e non solo, di coloro che invocano la “pace” sostenendo una posizione “né, né” tra i contendenti che sarebbero allo stesso modo responsabili della guerra.

Una posizione che oltre ad essere ipocrita ed ideologicamente rovesciata, si basa su una pretestuosa analisi delle attuali vicende e di quelle che negli ultimi decenni hanno preceduto l’attuale guerra. Ciò detto sul dramma di un popolo che dobbiamo chiamare “eroico” senza timore di retorica, vorrei concentrare il mio intervento sulle conseguenze che la guerra ha sulla politica internazionale e sul rapporto tra regime politico e aggressività militare.

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Cosa insegna la politica seguita dagli Stati Uniti in questa guerra? Dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’America era divenuta il numero uno politico, economico e militare nel mondo, eravamo abituati a considerare quasi naturale l’interventismo militare della superpotenza al fine di tutelare gli equilibri internazionali e la sua supremazia in un’area del mondo. Con modalità diverse, più o meno aggressive, gli Stati Uniti inviarono così le loro truppe in Corea, Vietnam, in alcuni Stati dell’America centrale, poi in Iraq, Afghanistan e in altri luoghi in cui occorreva garantire la “pax americana”, qualsiasi cosa significasse, e tutelare i suoi interessi geostrategici. Nel caso dell’Ucraina, nonostante si trattasse di un importante Stato cuscinetto tra occidente e oriente, tra l’Europa occidentale e la Russia, la dottrina strategica americana è stata diversa proclamando apertamente No boots on the Ground – che cioè non sarebbero stati mandati i marine sul terreno di guerra – pur sostenendo con le armi, con aiuti umanitari, intelligence e addestramento militare a fianco del fronte popolare ucraino e della sua classe dirigente del premier Zelensky.

Tale indirizzo politico-militare ha rappresentato una importante novità nella politica estera Usa che non deve essere considerata episodica. Dopo le ultime prove disastrose di Boots on the ground in Iraq e in Afghanistan, la maggioranza degli americani si è espressa in maniera contraria al coinvolgimento militare diretto all’estero, con l’invio dei suoi soldati su campi di battaglia con la possibilità di cadere non si capisce per quale causa. Tale atteggiamento non è soltanto il risultato di una revisione strategica e politica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ma soprattutto la presa d’atto dell’orientamento della popolazione già evidente in occasione delle elezioni presidenziali di Obama, Trump e di Biden. L’interventismo americano nel mondo, consacrato dalle alleanze militari, in primo luogo da quelle costituite all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, con l’Alleanza atlantica, erano sospinte da un mix di difesa dei valori e degli interessi del Mondo libero a fronte del comunismo internazionale.

Oggi quei valori hanno perso importanza, e così gli interessi militari che si sono andati riorientando verso lo scacchiere pacifico nella competizione/contrapposizione con la Cina. Da alcuni anni gli Stati Uniti chiamano i paesi europei ad assumere una maggiore responsabilità finanziaria nella Nato secondo gli impegni originari per spostare il loro principale asse finanziario-militare sul teatro dell’estremo oriente. L’atteggiamento sull’Ucraina è il segno di tale orientamento che mi pare faccia testo anche per gli europei, oltre che significare un’estrema cautela e responsabilità verso conflitti che possono divenire generali e nucleari.

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L’altro effetto duraturo nei rapporti internazionali della guerra russa contro l’Ucraina è la ritrovata unità, o almeno concordia, tra i Paesi europei. L’obiettivo di Putin era di dividere tra loro i Paesi europei e di separare l’Europa dagli Stati Uniti. L’effetto che ad oggi si deve registrare è l’opposto a quello ipotizzato dagli aggressori. Forse per la prima volta da diversi decenni gli Stati Europei, compresa la Gran Bretagna, si sono trovati affiancati nelle misure da prendere con le sanzioni nei confronti della Russia, e nel superare, se pure in parte, i propri divergenti interessi, primo tra tutti quello degli scambi import-export con Mosca. Ciò che i complessi negoziati cresciuti intorno all’Unione europea non erano mai riusciti ad ottenere in maniera semplice e rapida, si è materializzato con efficacia di fronte all’aggressione russa e alla solidarietà morale e materiale con il popolo ucraino.

Anche l’accoglienza dei profughi nell’ordine di alcuni milioni ha registrato una singolare unanimità di comportamenti che mai si era verificata rispetto ai profughi provenienti dall’Africa e dal Medio oriente. Si dirà che è un atteggiamento discriminatorio tra “l’uomo bianco” e il “non bianco”, cosa che ha un fondamento. Ma l’altro aspetto di tale vicenda è la presa di coscienza di una comune eredità culturale che in qualche modo unisce i popoli europei e gli ucraini al di là delle lingue e dei confini nazionali. È perciò possibile che l’annosa questione della comune difesa europea tra Stati con forti identità nazionali, possa fare dei passi avanti dopo che il progetto della Comunità europea di Difesa che doveva essere il pilastro dell’unità europea naufragò nel 1954 per il nazionalismo militare della Francia.

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C’è tuttavia un terzo elemento – certo non nuovo – che trova oggi conferma nel dramma che tutti noi stiamo vivendo insieme al popolo ucraino. È lo stretto legame tra il regime politico e l’aggressività militare di uno Stato. Quel che la storia ci ha insegnato nei secoli, trova oggi conferma nel rapporto tra Russia e Ucraina. Sono proprio le tradizioni politiche di Russia e Ucraina che rappresentano la maggiore distinzione tra i due Paesi. La grande patria russa è sempre rimasta, anche negli ultimi due secoli che hanno visto la progressiva democratizzazione politica e sociale del mondo occidentale, un regime autocratico, che si trattasse dello Zar, del comunismo o della nuova versione putiniana. Al contrario l’Ucraina, nel corso delle travagliate vicende del Novecento ha sempre manifestato delle spinte verso regimi democratici sotto l’influenza dei modelli dell’Europa occidentale.

L’aggressione con i caratteri della brutalità stragista conferma che è intrinseco alla politica russa d’oggi, e alla sua tradizione storica, una vocazione all’aggressione della forza militare verso terzi in nome di una interpretazione dei diritti della cultura autoritaria. Al contrario lo spirito di resistenza nazionale dell’Ucraina, fino al sacrificio di massa in nome degli ideali della propria sovranità, indipendenza e libertà, riflette una vocazione culturale, si potrebbe dire identitaria, intorno a valori che hanno comuni radici democratiche. La conclusione di queste tristissime vicende d’oggi dice che una rivoluzione democratica in Russia è impossibile, ed è altrettanto impossibile un governo autoritario in Ucraina. È perciò che Putin non è solo in guerra con la nazione di Zelensky, ma anche con tutto l’occidente democratico.