Patrizio che corre, corre da via Stadera per arrivare a Piazza Dante, scendere in un ex rifugio anti-aereo e allenarsi, correre dietro il sogno, correre via dalle “macerie della vita”. Oliva che racconta il ragazzino, il pugile, il campione olimpico, il campione del mondo, l’atleta che ha vinto tutto quello che poteva vincere, che racconta “una storia che ero convinto potesse colpire i giovani, a volte si pensa che i campioni arrivano da famiglie di un certo livello. Non è così e per vincere bisogna faticare”. Faticare che in napoletano si legge “lavorare”, lavorare duro, fare sacrifici e rinunce, perché “il pugilato è sofferenza”. Patrizio Oliva torna a teatro con lo spettacolo Patrizio VS Oliva.

Prima a Colleferro, al teatro Vittorio Veneto, sabato 11 marzo e poi martedì 14 alla Sala Umberto di Roma. Lo spettacolo è stato scritto da Fabio Rocco Oliva, che aveva scritto già Sparviero – La mia storia, edito da Sperling & Kupfer. “Con nessun giornalista avrei potuto mettermi a nudo come ho fatto con mio nipote. Dicevo sempre che dalla penna dello scrittore non doveva uscire l’inchiostro ma il sangue della mia famiglia”. Padre violento, madre premurosa, un fratello che diventa pugile e che gli indica la strada, un altro fratello talento calcistico morto a soli 16 anni a causa di un tumore. Ciro era seguito anche dal Napoli.

Patrizio Oliva ha vinto tutto quello che poteva vincere da pugile, ha fatto il tecnico della Nazionale, oggi è alla guida degli Schoolboys azzurri, ha fondato e gestisce la palestra Milleculure nel Rione Traiano, quartiere popolare di Napoli. Lo spettacolo era già andato in scena, fermato dalla pandemia da covid-19. La regia è di Alfonso Postiglione, in scena anche l’attrice Rossella Pugliese.

Salire sul ring, salire sul palcoscenico. Quanto si somigliano queste due esibizioni?

Sono molto simili. Quando salivo sul ring ero cosciente dei pericoli cui andavo incontro, salivo con la paura. Poi quando suonava il gong si scioglieva il sangue e via. A teatro è la stessa cosa. Prima di salire c’è la paura di sbagliare, di dimenticare le battute, di incespicare nelle parole. Per l’attore la morte è una cosa del genere. Le affinità sono tante.

Forse si mette ancor di più a nudo sul palcoscenico che sul ring.

Racconto la verità della mia famiglia. Non c’è niente di romanzato. Perciò la mia storia poteva scriverla soltanto mio nipote. Ha preso varie notizie anche da altri parenti oltre che da me, da cui poteva ricavare solo una minima parte delle informazioni necessarie.

Perché l’hanno soprannominato “lo Sparviero”?

Questa è stata l’unica cosa che abbiamo romanzato, nel libro, in questa scena in un bosco con un serpente e un uccello che plana. Fu Franco Esposito, giornalista del Corriere dello Sport. Perché sul ring ero così, un rapace veloce, elegante, pronto a punire la preda alla prima occasione.

Lei è nato e cresciuto in via Stadera, quartiere di Poggioreale a Napoli. Ci torna mai?

Non ho molte occasioni, anche se lì abbiamo sempre la casa dei nostri genitori.

Angelo Dundee, emblematico allenatore di Muhammad Alì, voleva portarlo negli Stati Uniti. Si è mai pentito di aver rifiutato quell’invito?

Mai, non mi sono mai pentito di aver detto no ad Angelo Dundee. Sapevo di poter diventare campione del Mondo anche qui, a Napoli, e volevo diventarlo qui. Rocco Agostino (manager di pugilato, ndr) mi aveva garantito che mi avrebbe portato al Mondiale e così è stato.

E oggi invece il pugilato non gode della stessa popolarità di un tempo. Alle ultime Olimpiadi non c’era neanche un pugile maschio italiano.

In 100 anni della nostra storia non era mai successo. Fortunatamente con le donne ci siamo salvati, con Irma Testa abbiamo preso il bronzo. Da quando alla Federazione c’è il presidente Flavio D’Ambrosi le cose stanno cambiando. Sta rilanciando il professionismo in Italia, che era morto, e ha lanciato di nuovo anche il dilettantismo. Ora abbiamo una buona scuola maschile. Ho fatto una scommessa con me stesso: Abbes Mouhiidine secondo me vincerà la medaglia d’oro a Parigi. Non vedo nessun peso massimo col suo talento, a meno che non ne esca uno all’improvviso. Nessuno con le sue caratteristiche, quella velocità, quella percezione, quel colpo d’occhio. Fenomenale. Se davvero passerà professionista potrà riportare gli italiani davanti al televisore.

Secondo lei manca un personaggio che possa alzare l’attenzione.

Siamo abituati a seguire uno sport se nasce il personaggio. Siamo stati tutti sciatori con Alberto Tomba, tutti tennisti quando c’era Adriano Panatta, tutti pallavolisti quando l’Italia femminile ha vinto i Mondiali. È così che ci avviciniamo alle discipline, non abbiamo una vera cultura sportiva. Abbiamo avuto nel pugilato campioni che potevano passare al professionismo e accendere di nuovo i riflettori su questo sport ma hanno fatto scelte di vita diverse, ma il dilettantismo è seguito una volta ogni quattro anni. Nell’immaginario collettivo il pugilato è il professionismo. Loro hanno preferito la sicurezza di una pensione, io ho preferito vivere il mio sogno di diventare campione del mondo. Ero nei carabinieri, avevo cominciato a lavorare in banca, e ho lasciato per inseguire il mio sogno.

Le Olimpiadi a Mosca del 1980 furono quelle del boicottaggio da parte degli Stati Uniti in protesta con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Gli USA furono seguiti da altri 65 Paesi. Lei vinse la medaglia d’oro e la Coppa Val Balker, al miglior pugile dei Giochi. Per la presenza della Russia e della Bielorussia ai Mondiali femminili in programma a Nuova Delhi undici nazionali hanno annunciato il boicottaggio.

Prendersela con gli atleti non è giusto. Quando l’Aiba fu sanzionata dal Cio mi auguravo che punissero solo l’Aiba e non i pugili. A Mosca per questioni politiche l’Olimpiade fu dimezzata. Al boicottaggio però nella boxe non parteciparono i Paesi più forti, quelli dell’est, i cubani. Non passavano professionisti e avevano centinaia di combattimenti alle spalle.

Lei oggi si occupa del settore Schoolboys della Nazionale (dai 13 ai 15 anni, ndr). Agli Europei in Turchia avete conquistato quattro podi.

Un argento e tre bronzi. Nessuno dei ragazzi è finito knock down, nessuno ha perso per ko. Era importante per me tutelarli fisicamente. Sono ragazzini alle prime armi che in alcuni casi si confrontano con ragazzini di altri Paesi che possono combattere già a 8 anni, mentre noi possiamo dal 13esimo anno di età. Con l’eccezione di una, tutte le sconfitte le abbiamo subite contro pugili che successivamente hanno vinto l’oro e l’argento.

Lei ha guidato la Nazionale alle Olimpiadi di Atlanta e di Sidney, le piacerebbe rifarlo?

No, anche per motivi familiari.

E intanto ha fondato la Palestra Milleculure, nel Rione Traiano.

Sì, con Diego Occhiuzzi, altro olimpionico: due bronzi e un argento nella scherma. I bambini che appartengono a famiglie bisognose qui non pagano. La retta è bassa per permettere a tutti di fare sport. Collaboriamo con aziende che ci sponsorizzano e ci seguono. Abbiamo atleti interessanti come Marialuisa D’Alessandro e Jessica Galizia: era nel giro della Nazionale prima di interrompere per un paio d’anni per problemi personali. Da Verona si è trasferita a Napoli perché ha scelto me come allenatore. La palestra l’abbiamo aperta nel 2015, quando vincemmo lo spazio con un bando del Comune.

È molto diversa dalla Fulgor, dove lei ha cominciato con il maestro Geppino Silvestri.

Prima di andare via mettevo il veleno agli angoli per i topi. Dove stanno più quelle palestre? E dove stanno più gli atleti disponibili ad accettare quelle condizioni? Era umidissima, una doccia per 50 persone, non credo di aver mai fatto una doccia calda in quella palestra. Ero il primo a entrare e l’ultimo a uscire. Silvestri era un maestro di vita oltre che di sport.

Quanto chiede il pugilato al pugile?

Quando feci il mondiale mi dissi che o vincevo o potevo pure morire. Ero disposto ad andare anche incontro alla morte, la mia era una scelta di vita. Il pugilato è uno scontro fisico, ti imponi di andare oltre.

Perché ha deciso di portare a teatro la sua storia?

Da anni attraversiamo un degrado generazionale per quanto riguarda le giovani generazioni. Stanno crescendo senza valori, senza regole. Pensano che tutto possa arrivare senza fatica. Per arrivare a determinati livelli bisogna faticare. Nulla ti è dovuto. Devi sudare, devi fare sacrifici, devi rinunciare e avere la forza di farti scivolare da dosso tutti i problemi della vita. Sul ring ho sempre lasciato fuori tutti i problemi della mia famiglia.

Se pensa alla sua vita, cosa le passa per la testa?

Mi vengono i brividi. Mi ricordo della povertà assoluta, delle macerie della vita, e non mi scoccerò mai di usare questa espressione. Mi è servito per capire che io là non ci volevo tornare più.

Pensa spesso a suo fratello Ciro?

Mio fratello sono 50 anni che è morto e da 50 anni io ci parlo. Mi raccomando a lui qualsiasi cosa faccio nella vita, mi faccio consigliare. Ancora oggi ho un suo quadro accanto al mio letto. Ognuno si crea il proprio dio, il mio è mio fratello Ciro.

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Patrizio Oliva (@patrizio_oliva)

Avatar photo

Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.