Forse più ancora del fascismo esteriore, che nel secolo breve avanzava con i suoi tradizionali simboli di morte e si affermava al potere totalizzante con i nudi apparati repressivi, occorre temere il fascismo interiore, quello spirito di conformismo che, come un’onda inarrestabile, conquista i media e li trasporta all’unisono nella quotidiana offerta di esaltata riverenza verso “Madonna Giorgia” che tiene saldamente in pugno l’autorità.

Le note entusiastiche di storici e opinionisti del Corriere, che elogiano l’empatia, la leadership, il coraggio, la genialità della comandante in capo, sono solo l’aspetto più patetico del sentimento di ossequio trasformistico che, al cospetto del padrone del tempo nuovo, contagia molte firme (non solo) di via Solferino. Emblematica espressione della omologazione culturale così volgarmente dilagante è, senza dubbio, un editoriale apparso su Repubblica a firma di una cronista che il giustizialismo light dell’era veltroniana condusse nientemeno che alla direzione del quotidiano fondato da Gramsci. Persino il giornalista di Libero presente oramai in tutte le trasmissioni di telepolitica in qualità di amico di “Giorgia” e unico rappresentante doc della nouvelle vague meloniana, che invece adesso si appresta a radunare anche file enormi di aspiranti lacchè, mostrava di non credere alle proprie orecchie mentre veniva inopinatamente scavalcato a destra dalle parole ispirate da un profondo rapimento mistico verso le gesta oratorie della “fuoriclasse”.

Davvero , come ritiene Repubblica, “è nata una leader”, il cui discorso in Aula è “impeccabile, convinto, competente, appassionato, libero, sincero”? Ed è proprio certo che il problema di questo governo appena insediato sono semplicemente i “compagni di viaggio”, ovvero “il caravanserraglio di vecchie cariatidi che sono salite a bordo della sua scialuppa”? Secondo il quotidiano fondato da Scalfari, in spericolata corsa verso il celere riposizionamento dinanzi alla “grandissima comunicatrice” stimata come destinata alla lunga egemonia, il principale problema italiano consiste nello squilibrio sin troppo palpabile tra la grandezza e la “giovinezza” di una “leader che c’era già, da anni, solo che ora l’hanno vista tutti -cancellerie del globo comprese-” e una “galleria di mostri” che ha incautamente (e a questo punto, forse, a sua insaputa) scelto come ministri.

La questione politico-istituzionale urticante che la conquista del controllo del governo da parte della leader della destra più radicale solleva non è risolvibile in maniera così schematica e semplice, purtroppo. Il più cospicuo limite di questo esecutivo composto da tre distinte destre (una liberal-popolare, una etno-populista e l’altra radicale di ascendenza post-fascista) risiede, più che nella squadra difettosa allestita tra compromessi e minacce, nella fragile capacità direttiva della pretesa “fuoriclasse” insediata a Palazzo Chigi. Si può anche scambiare per parole epocali le frasi di semplice circostanza consegnate in un discorso di assoluta pigrizia espressiva. Resta il fatto inoppugnabile, però, che la cosiddetta costituzionalizzazione della destra con la fiamma ancora in corpo non c’è stata. Ed è anche naturale che sia così. Stucchevole è che gli umiliati di settembre, invece di leccarsi le ferite e di assumere con dignità quel liberatorio senso di vergogna per la sconfitta storica rimediata a causa di una totale insipienza tattica, invochino la partecipazione al 25 aprile dei capi più neri della nuova élite al potere.

Offesa maggiore alla memoria dei combattenti partigiani e ai padri costituenti forse non ci potrebbe essere. Davvero ha un senso implorare Ignazio La Russa affinché, magari dopo aver ben spolverato i domestici busti del duce, gentilmente invii un bel messaggio retorico sul valore della Resistenza antifascista? La destra a guida Meloni in realtà ha profanato, e in maniera democratica, le radici storiche della Repubblica. È troppo rassicurante cogliere in taluni vaghi cenni emersi alla Camera la capacità assorbente della Carta che costringe i suoi antichi nemici a chiari gesti di riconciliazione. Non solo “il” Presidente del Consiglio ha diluito nella categoria ingannevole di “totalitarismi” la mancata “simpatia” per il fascismo storico e le leggi razziali (con un’enfasi, a dire il vero, soprattutto su queste ultime), ma ha gettato un inequivocabile guanto di sfida rivolto all’ordinamento costituzionale quando ha annunciato la ferma volontà della maggioranza di seppellire la vetusta repubblica parlamentare, per costruire una nuova forma di governo in nome del principio supremo della stabilità.

L’odierna battaglia antifascista non può esaurirsi nelle reiterate implorazioni agli uomini nuovi della destra affinché venga da loro tributato un omaggio al martire Matteotti e ai più rilevanti simboli storici della Repubblica. Il vero terreno di scontro va ricercato oggi nel contrasto risoluto alla volontà di istituzionalizzare il preteso dono personale-carismatico della “capa” in una nuova repubblica di stampo presidenziale. Fa male per questo Renzi a giocare sul piano meramente tattico, con aperture alla modellistica semipresidenziale, una questione che in realtà è ben più sostanziale, scavalca gli stampini dell’ingegneria costituzionale per abbracciare i fondamenti storico-valoriali di ciò che permane della Repubblica.

Ha un bel dire Marco Damilano che adesso, con Meloni insediata al posto supremo di comando, finalmente si chiude il cerchio del trentennio della Seconda Repubblica e il professionismo della politica si prende la sua vendetta sulle forme di rivolta inscenate dalla società civile contro la casta. Era forse possibile un epilogo diverso rispetto a quello che ha portato inesorabilmente al revanscismo post-missino? Aveva una sorte bella e segnata la sfida alquanto ignobile tra l’adunata nera che intimava al Parlamento degli inquisiti di “arrendersi” e la piazza della Rete e dei movimenti civici che gettavano le monetine contro Craxi e poi si mobilitavano per la “repubblica dei cittadini” in luogo della partitocrazia, per il “partito personale” del leader contro gli apparati, per la “rottamazione” contro i politici di lungo corso.

Il cerchio si chiude in questo modo, caro Damilano, anche perché tutte le categorie interpretative in cui hai creduto, dal giustizialismo al culto del movimento referendario, dalla ripulsa antipartito alla necessità di conciliare la sinistra con il leaderismo, hanno fatto cilecca opponendo il vuoto (organizzativo e identitario) all’onda montante della destra. Berlusconi, che dopo anni torna a parlare in un’aula parlamentare, si inganna anche lui di grosso se crede che Meloni, con la quale appunto una fase storico-politica si compie, sia una sua creatura. Il Cavaliere per alcuni decenni, proprio sdoganandoli, ha in realtà contenuto i “fascisti”, come lui li chiama. Ha dato con la sua opera un paradossale supplemento di vita alla repubblica, infestandola certo con i conflitti di interessi e le decadenze dello spirito pubblico.
A parabola conclusa del ciclo del berlusconismo, con la mancata istituzionalizzazione del partito-azienda tramite l’invenzione di una linea successoria di tipo familiare-proprietario capace di occupare il vuoto dovuto all’usura del corpo del capo, il nero, che negli anni 90 il partito di plastica ha soltanto rimosso, torna con prepotenza a rivendicare uno spazio egemonico.

La crisi della Prima Repubblica ebbe sin dalle origini un esito chiaramente di destra (basti pensare ai netti segnali lanciati nelle elezioni amministrative del ’93), Berlusconi lo ha nascosto a lungo con la sua discesa in campo che, saldando la fiamma e il carroccio, regalò ai missini le agognate spoglie ma impedì ai camerati la fondazione, anche formale-costituzionale, di una Seconda Repubblica. Questa storiella, raccontata in toni edificanti anche da Luca Telese, secondo cui con Meloni almeno torna la politica, è una perfetta insulsaggine. Quest’ultima non va mai via, e ora arroccata saldamente al potere non c’è la politica, ma la destra radicale. Che ricomincia con le battaglie navali, la pace fiscale e i favori ai signori del riciclaggio, che intende esercitare un potere disciplinare sul corpo delle donne, che spacca la testa a qualche studente scambiando la Sapienza per una piazza sudamericana.