Ai tempi del Male, un settimanale simile a Charlie Hebdo degli anni Settanta sintetizzava la differenza fra destra e sinistra con l’immagine di due frigoriferi. Frigo di destra: un magazzino di ogni ben di dio con bistecche, dolci, bevande. Frigo di sinistra: un ciuffo di prezzemolo appassito e un uovo rotto. Che c’entra con Trump e le contorsioni che sta vivendo l’America? C’entra perché in quel pianeta il loro frigo è paradossale: i poveri, gli operai, tutti gli immigrati latini di origine cubana e messicana, più una fetta sempre più larga di afroamericani irritati dalle distruzioni compiute in loro nome dai gruppi di “Black Lives matter”, ha votato massicciamente per Trump, il quale (altra sorpresa) ha con insperato successo modificato l’antico Dna, con la puzza sotto al naso, della vecchia destra per dare vita a una genetica individualista ma popolare.

Chi conosce l’America lo sa: nessuno è più astiosamente antiamericano degli americani. In nessun altro Paese un grande numero di persone parla della propria identità con distruttivo disprezzo, cosa considerata di per sé liberal, cioè progressista. Trump ha puntato sul recupero di un sentimento nazionale che, come abbiamo visto, è piaciuto ai ceti più popolari. In nessun altro Paese oltre gli Stati Uniti d’America le università dedicano uno straboccante numero di cattedre allo studio del Marxismo filosofico, economico e politico che di fatto costituisce da oltre venti anni un predominio ideologico. Ne consegue che il marxismo sia studiato e adorato in tutte le maggiori università specialmente della East e della West Coast, da accademici e studenti violentemente ostili a chiunque non si dichiari socialista o comunista, femminista radicale o a favore delle posizioni “gender”, o comunque rivoluzionario.

Ciò spiega la popolarità non soltanto dell’anziano Bernie Sanders (i cui supporters sono apertamente nostalgici dell’Urss e della Cuba castrista, e anche del Venezuela di Maduro) ma anche di personaggi barricaderi, come la Cortez, e altri, che sembrano usciti da un teatro di leggende gotiche, di una sinistra che non ha nulla a che fare con quella europea. Secondo George Friedman, il miglior analista sullo stato del mondo, gli Stati Uniti attraversano un periodo intermittente di rigenerazione distruttiva interna che permette il successivo raggiungimento del prossimo livello di integrazione. Ma mai, in nessun momento, gli americani hanno evitato di dire che quello di oggi è senz’altro il peggior periodo della loro storia. Il giovane e brillante astro nascente della filosofia politica inglese, specialista e profondo conoscitore degli Stati Uniti, Douglas Murray (gay e conservatore, autore di libri sul suicidio dell’Europa e sulla guerra civile per generi e razze) ha detto dopo averli visti all’opera che gli attivisti di “Antifa” sono puri squadristi dediti a spedizioni punitive.

Noi non sappiamo ancora come andranno a finire tutti i ricorsi che i legali della Casa Bianca e di Trump hanno presentato per il riconteggio dei voti in molti Stati. Diamo per (quasi) certo che tali ricorsi – anche se hanno già messo in evidenza irregolarità in Pennsylvania dove Trump vinceva con gran distacco, distrutto all’alba dall’arrivo di un camion con centinaia di migliaia di voti tutti per Biden o per l’allontanamento con la forza degli scrutatori repubblicani dai seggi elettorali – non modificheranno il risultato finale che vede Biden vincitore. Ciò non toglie e non sfugge neanche ai migliori inviati italiani, che queste elezioni non si concludono con una vittoria importante di un candidato e di una politica su un altro candidato e un’altra politica, ma si concludono con una spaccatura verticale degli Stati Uniti come questo Paese non conosceva dai tempi della guerra del Vietnam e della fine della segregazione razziale.

L’America che ha vinto, quella democratica, non ha avuto l’onda blu su cui contava e ha prevalso in condizioni mai registrate nel passato e cioè con l’uso delle schede postali per decine di milioni di votanti, imposte per il Covid contro il Presidente e avallate dalle corti che hanno autorizzato una spesa di miliardi di dollari per ricostruire gli uffici postali decaduti da quando esistono le e-mail e Amazon. La camera bassa, “The House”, è stata mantenuta ma con qualche perdita mentre il Senato per ora è repubblicano salvo un risultato a sorpresa nelle suppletive del prossimo 5 gennaio. Tutto ciò non sarebbe di per sé drammatico.

È già avvenuto. Ma non era mai avvenuto che la metà del Paese (e non stiamo parlando della persona di Donald Trump) si sentisse beffato ma non sconfitto. Mentre scrivo queste righe vedo in Kansas un brulicare di milizie civili armate composte da uomini e donne, bianchi e neri, carichi di fucili e pistole, i quali affermano senza gridare di sentire il dovere di essere pronti a difendere la Costituzione. Per noi europei non è facile da capire, ma il famoso secondo emendamento che tutti deploriamo perché consente l’acquisto di armi a qualsiasi maggiorenne, vien evocato continuamente nelle interviste: «I nostri padri fondatori vollero che i cittadini avessero diritto a portare le armi da usare contro il governo se questo si fosse trasformato in tirannide».

E Biden se ne rende perfettamente conto, sapendo quanto il rischio di un conflitto sia reale, perché il suo appello alla fine della lotta politica e il riconoscimento della legittimità dell’altro, porti al disarmo sia delle parole che dei fucili. Tutti i giornali, anche in Italia, descrivono il fatto inaspettato delle masse repubblicane che presidiano le strade e acclamano l’attuale Presidente che è legittimamente in carica fino al prossimo 20 gennaio. In campo democratico la sinistra radicale chiede apertamente l’epurazione di tutti coloro che in qualsiasi modo siano stati compromessi con l’amministrazione Trump affinché siano cacciati ed eventualmente messi in stato d’accusa. “The narrative” ampiamente diffusa e seguita anche nell’Europa continentale (ma molto meno nel Regno Unito), prescrive di diffondere il timore che un illegittimo e pericoloso tiranno possa tornare.

Il Gop, il Grand Old Party, ovvero il Partito Repubblicano che molti speravano si sfaldasse mettendo alla porta l’intruso Trump per ricostituirsi nella vecchia identità, si è invece totalmente cementato intorno al Presidente, compresi i Bush e i senatori Ted Cruz e Marco Rubio. Che hanno smesso di fare la fronda. Non è un caso che Trump dal momento delle elezioni faccia continui riferimenti ad Abraham Lincoln, il primo Presidente repubblicano che non esitò a combattere una guerra contro i secessionisti confederati del Sud. La febbre americana è dunque altissima, perché entrambi gli schieramenti hanno milizie: da una parte le forze che si sono formate nel corso dei tumulti seguiti all’uccisione di George Floyd sotto i vessilli di “Black Lives Matter” e poi con i gruppi “Antifa”; dall’altra l’esibizione fortemente visibile in televisione e sui social delle milizie che si definiscono “costituzionali”, cioè trumpiste, e che sono formate per il cinquanta per cento da repubblicani latini e di colore.

Purtroppo, e qui mi permetto per la seconda volta di esprimere un’opinione personale, in Europa è rarissimo sentire esponenti politici o giornalisti in grado di avvertire l’eccezionalità, l’unicità e l’esplosività di una situazione che è veramente arduo ricondurre allo schemino destra-sinistra, dal momento che per una curiosa circostanza il fronte della destra comprenderebbe la maggioranza degli operai, dei contadini, degli immigrati regolari latini e non, con una forte partecipazione della borghesia e degli intellettuali afroamericani.

Dalla parte di Biden sono certamente le grandi aree urbane di ceto medio alto e una parte residua del voto nero e di quello della cintura operaia del ferro e della ruggine. Tutto questo, mentre il conflitto con la Cina è molto più che un conflitto di mercati. Riusciranno gli americani a raffreddare la loro Chernobyl politica e restaurare in qualche modo le istituzioni? Dovrebbe essere compito di Biden, che supplica a gran voce per un raffreddamento. Ma per ora non si vedono indicatori che affermino che la febbre stia passando.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.