L’orizzonte immediato è coperto dai bagliori della guerra in Ucraina. Ma questo non impedisce di vedere cosa attende l’Italia, e probabilmente gran parte dell’Europa, subito dopo. Basta entrare in un qualsiasi supermercato per rendersene conto. I dati ufficiali parlano di una inflazione maturata nei primi mesi del 2022 oscillante tra il 6 e il 7%. Ma i prezzi sui cartellini degli alimentari dicono altro: gli aumenti sono del 40/50%.

Mediare questi dati con quelli delle merci invendute giacenti nei magazzini significa mistificare la realtà. Una famiglia spende, innanzitutto, il proprio reddito per i beni primari, quali sono tra l’altro quelli destinati all’alimentazione e per l’energia, ed è questo il primo e decisivo criterio per valutare l’adeguatezza di tale reddito. Per quello che riguarda la ripresa, i dati straordinari, che avevano fatto seguito alla conclusione della fase più cruenta della pandemia, si stanno rapidamente sgonfiando: l’incremento nel 2022 sarà inferiore al 2% e si allontana il traguardo del recupero del pil pre-covid. D’altra parte, la ripresa non ha affatto coinvolto tutti: molti settori sono stati messi definitivamente in ginocchio dalla pandemia. Come riferisce un recente rapporto della Caritas, che ha riguardato la città di Roma, dal titolo significativo “False ripartenze?”, quasi una persona su quattro (il 23,6%) vive in uno stato di disagio economico, il 10,3% è in grave deprivazione materiale, il 14,1% è a rischio povertà mentre il 6% arriva con fatica a fine mese. Infine, più di un lavoratore su cinque è nella trappola della precarietà. Se si considera che Roma è una città privilegiata per l’alto tasso di impiego pubblico, e perciò di regola stabile e anticiclico, si può immaginare quanto precaria sia la situazione in altre zone del paese.

La svalutazione dei redditi si aggiunge, quindi, a una crisi economica che morde sempre di più. Le strade delle città italiane sono piene di saracinesche abbassate e che non riapriranno mai più. Tanti occhi chiusi sul volto di città che appaiono sempre più grigie. Ma non è solo il commercio a soffrire. Basta cercare i dati per rendersi conto che è una grandinata. Nel settore del turismo il 2021 ha registrato, rispetto al 2019, 60 milioni di arrivi in meno e sono mancati 190 milioni di pernottamenti. Facile immaginare quale sarà il dato del 2022, che vedrà anche l’assenza dei turisti russi. Nel settore dell’auto, il mercato ha subito una contrazione, rispetto al 2019, di quasi il 40%. Le conseguenze della guerra in corso si fanno già sentire: intere filiere produttive sono messe in crisi dai rialzi dei prezzi dell’energia; si pensi a settori quali quelli delle piastrelle o del vetro. Veri e propri vanti del made in Italy costretti a fermare la produzione. Ovviamente, quanto accade si riversa su tutti gli altri settori: imprese di servizi che spariscono, studi professionali che chiudono, piccole botteghe artigiane che si dissolvono.

Davanti al paese, il cui equilibrio è da tempo instabile per l’enorme indebitamento, sono spalancate le porte di un vero e proprio precipizio. Il vortice della povertà rischia di travolgere, nei prossimi mesi, una parte della popolazione ancora più cospicua di quella che è già stata devastata dagli effetti della pandemia. La dimensione del fenomeno è di una tale portata che non può essere affrontata con strumenti ordinari e affidandosi alle sole dinamiche di mercato. Sarebbe anche pura demagogia affidarsi a ricette semplicistiche quali il reddito di cittadinanza o la vecchia vulgata secondo cui i problemi si risolvono togliendo ai ricchi per dare ai poveri. Quanto al reddito di cittadinanza, è sufficiente porsi questa domanda: che ricchezza può distribuire un paese che non produce ricchezza? Quanto all’idea di togliere ai ricchi per dare ai poveri, si tratta di un’idea che ha sempre successo sul piano della pura demagogia, ma che sconta il difetto che quel tanto, diviso tra tutti, diventa una goccia. Un paese povero non dà a nessuno e finisce, inevitabilmente, per rischiare di vedere compromesse anche le libertà fondamentali. L’unica possibile risposta efficace è, allora, quella di mettere il paese in condizione di riprendere a produrre, a favore di tutti, ricchezza.

Nella prospettiva indicata, non è sufficiente, come sembra oggi stia accadendo, limitarsi ad attendere la fine della guerra e cercare di tamponare la situazione con una serie di elargizioni a pioggia, si chiamino reddito di cittadinanza o bonus. È, viceversa, urgente la definizione di un piano di politica economica, che fissi e incentivi le direttrici su cui deve incanalarsi la ripresa. Come ben sanno sia gli economisti e sia i giuristi che si occupano del mercato, quest’ultimo non è affatto un fenomeno spontaneo, ma va nella direzione che gli imprimono le regole che lo governano. Ecco, allora, che la crisi può essere l’occasione per ridisegnare il modello di mercato nel quale vive la società italiana. Ed è in quest’opera di rimodellamento che va inserita la ricerca di uno sviluppo sostenibile non solo sul piano energetico ed ambientale, ma anche su quello sociale, non consentendo il formarsi di inammissibili sacche di povertà e di emarginazione.

È evidente che un progetto del genere non può esaurirsi nel perseguimento degli obiettivi di efficienza burocratica e di sostenibilità ambientale, che sembrano essere i principali traguardi perseguiti dal Pnnr. Certamente, specie in un momento di crisi, non possono essere tollerati gli sprechi, così come non può essere mantenuta in vita la attuale totale inefficienza burocratica. Al tempo stesso non può essere ignorata l’emergenza ambientale, pena il rischio di ritrovarsi, appena passata l’attuale crisi, con un sistema produttivo completamente obsoleto e da rinnovare. Ma questo non basta. Se ci si limita a queste due sole linee di sviluppo, le saracinesche oggi chiuse non riapriranno. È necessario che il paese compia delle scelte di carattere più generale sulle linee dell’auspicato sviluppo: deve essere sostenuta la grande impresa o la piccola e media impresa? E in quali settori produttivi? E l’agricoltura? Quale spazio deve avere il turismo, dopo che la pandemia ha dimostrato che i relativi flussi possono anche bruscamente interrompersi? Come va organizzata la mobilità delle persone e delle merci? E, ancora, quanta parte del prodotto interno deve essere destinato alla spesa sociale e, nell’ambito di questa, che spazio devono avere istruzione, ricerca, sanità, difesa, giustizia?

Si tratta di scelte di fondo, che, quando sarà possibile vedere una ripresa stabile, non potranno essere affidate alla casualità del momento. Esse dovrebbero essere fissate sin da ora, affinché costituiscano l’alveo in cui le spontanee dinamiche di mercato, creatrici di ricchezza, possano svilupparsi. Ma può un Governo, quale l’attuale, avere un tale orizzonte? Certamente non si è mosso sinora in quella direzione. Quell’orizzonte può essere raggiunto solo da una chiara ed omogenea visione politica. Richiede, da un lato, lungimiranza e, dall’altro, piena consapevolezza del modello di società che si intende costruire. Il Governo attuale, del tutto eterogeneo e costituito per superare l’emergenza pandemica, ha in più occasioni manifestato difficoltà a muoversi in una prospettiva più ampia.

Neppure si può sperare nell’Europa, la quale non solo è ancora troppo lontana dalla dimensione politica che sarebbe necessaria, ma è anche composta da nazioni, che hanno sia modelli economici e sociali diversi tra di loro e sia interessi spesso confliggenti. Si tratta, tuttavia, di un’urgenza. Se non sarà colta l’occasione della crisi per ridefinire, in una visione armonica e basata sulla sostenibilità non solo ambientale ma anche sociale, gli obiettivi di sviluppo del paese, l’effetto sarà l’accelerazione di quel declino, che già prima della pandemia aveva iniziato a manifestarsi in modo inequivoco.