Nei giorni scorsi i loro corpi martoriati sono stati visti un po’ da tutti sui siti di mezzo mondo, ma adesso già sembrano dietro le nostre spalle, travolti e superati dallo stesso clamore mediatico che pure li ha portati alla ribalta digitale. Stiamo parlando di Taqui Daryabi, fotoreporter, 22 anni e Nematullah Naqdu, cameramen, 28 anni. Ai quali dobbiamo aggiungere Mohammad Jalil Ramnaq, anche lui nemmeno trentenne, i reporter afghani che, dopo aver ripreso il corteo di alcune donne coraggiose impegnate a rivendicare i propri diritti umani e civili e averne diffuso la notizia sul giornale per cui lavorano, l’Etilaat Roz, sono stati arrestati dai talebani e vilmente torturati nella stanza di una caserma.

Questi giovani cronisti vivono sul filo del rasoio, nascosti a Barci, un quartiere della capitale afghana, come tanti altri hazara che, avendo collaborato col precedente regime sostenuto dagli americani, sono in pericolo di vita. È questione di ore. Potrebbero venir acciuffati e giustiziati da un momento all’altro. Resta la possibilità di farli evacuare con un corridoio umanitario, anche se i voli da Kabul si aprono e si chiudono a intermittenza. Nel frattempo Molawi Abu Mohammad Mansour, capo della polizia di Ghazni, ha intimato ai giornalisti di arrendersi al nuovo potere islamico con una lettera ufficiale immediatamente diffusa anche nella traduzione inglese, in modo tale da bruciare ogni illusione sull’eventualità di un ravvedimento democratico da parte dei fondamentalisti che oggi hanno in mano le redini del Paese.

Afghanistan! Ci siamo stati anche noi, potremmo sospirare come faceva Michael Herr nel suo capolavoro, Dispacci (1968), a proposito del Vietnam, con la volontà di sottolineare l’universale correità. Ancora una volta: colpevoli tutti, Russia, Stati Uniti, Pakistan, Cina, Iran, colpevole nessuno. Oggi la terra degli aquiloni, la cui natura sarebbe bellissima, rappresenta uno dei buchi neri del pianeta, essendo sempre più allo sbando, senza uno Stato in grado di garantire un minimo di civiltà e giustizia sociale. Queste cose le sappiamo. Ma un conto è leggerle sui giornali o vederle in televisione. Un altro conto è apprenderle dalla viva voce di un testimone personalmente coinvolto nella tragedia.

Mohamed Jan Azad ha 35 anni, è imprenditore nel ramo della ristorazione, sposato, padre di due figli. Io lo ricordo appena diciassettenne alla Città dei Ragazzi, comunità educativa alle porte di Roma, dove ci conoscemmo. Sono stato il suo insegnante di italiano. Da adolescente era uno dei miei studenti più svegli: si vedeva che avrebbe fatto strada, soprattutto quando redarguiva i suoi compagni indisciplinati e meno avveduti. Già allora aveva l’istinto pedagogico e pareva animato da un sacro fuoco interiore, lo stesso che oggi ne orienta l’azione: il suo obiettivo è salvare la vita a quante più persone possibile. Ha già contribuito in modo fattivo, rivolgendosi al Ministero degli Esteri e della Difesa, all’evacuazione di decine di persone. Non è stato facile per lui, nei giorni concitati e drammatici successivi al cambio di potere, stilare gli elenchi di coloro che sarebbero dovuti salire sugli aerei lasciando gli altri a terra: «Sentivo le loro grida disperate al cellulare, poi a un certo punto la linea è caduta. Era la bomba del kamikaze terrorista. Quando ho ripreso a parlare, ho saputo che c’erano stati più di duecento morti. Chi aveva perso i nipoti. Chi la moglie. Chi i figli. Chi gli amici».

Inevitabile per me tornare con la mente alle lezioni che tenevamo in cortile: Mohamed, Noruz e Alì, per venire in Italia, avevano rifatto a piedi il viaggio di Marco Polo, ma all’incontrario, dalle antiche terre del Gengis Khan fino a Venezia, superando i confini pakistani, iraniani, turchi e greci. A Patrasso avevano trovato posto fra le sospensioni di un Tir pronto a varcare l’Adriatico, passando vicino all’isola di Zante, dove nacque Ugo Foscolo, esule come loro. “Un dì s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente…”. Vita e letteratura si mischiavano. Quando io, spiegando la Shoah, raccontavo ai nuovi fuggiaschi i sommersi e i salvati di Primo Levi, gli occhi di Mohamed si stringevano in una speciale concentrazione. Oggi la lista che lui tiene in mano coi nomi delle famiglie disperate pronte a partire non può non ricordarmi quella famigerata di Oscar Schindler. «Più sono, meglio è: ma come fare a portarli in Italia, professore, il Paese europeo, lo dico con orgoglio, che finora ha fatto uscire più gente dall’Afghanistan

Il mio antico scolaro sa bene cosa significa per molti di loro restare sul posto: possono fare la fine dell’ex poliziotta incinta trucidata a Ghor, nel nord della nazione, davanti al marito e ai figli imbavagliati. Si chiamava Banu Nigar, i talebani le hanno estratto il cervello con un cacciavite. Notizia confermata dalla Bbc e pubblicata anche da questo giornale. Ancora una volta tornano a danzare i fantasmi selvaggi della storia novecentesca: gli abitanti dei villaggi intorno a Treblinka, Sobibor, Auschwitz, vedendo le foglie annerite sugli alberi di fronte a casa, non potevano non sapere ciò che stava accadendo a poca distanza da loro. Non dissero niente. Restarono in silenzio. Mohamed non ha più lacrime per piangere. Chiede aiuto alla Farnesina, mettendo a disposizione le sue conoscenze sul territorio. I suoi preziosi contatti. Le sue relazioni.

Vogliamo ascoltarlo o preferiamo continuare a discettare sulle varie forme di libertà che, secondo alcuni, ci verrebbero negate col green pass? Cresciuto nelle campagne intorno a Gazhni, nel distretto di Jaghori, da cui provengono i giornalisti torturati, Mohamed è in continuo contatto con loro, nella speranza che possano riuscire a sopravvivere prima che accada il peggio. So la ragione per cui fa questo, ma mi piace sentirla ripetere da lui per poterla condividere con tutti voi: «Oggi non posso pensare di non fare la mia parte perché quando ero bambino speravo che qualcuno facesse qualcosa per me».